Margherita Giacobino, Marina, Marina, Kunstmann, Monaco, 1999
Il romanzo di Margherita Giacobino suona allegro nel titolo che ripete il nome della protagonista sul ritmo di una squillante canzonetta della fine degli anni Cinquanta. Marina è una fotografa che appartiene alla generazione della sua autrice: un po’ troppo giovane per avere partecipato alle stagioni politiche del ‘68 e del primo neo-femminismo, ma abbastanza “grande” per esserne profondamente influenzata nelle scelte di vita anticonformiste e nelle frequentazioni umane non convenzionali.
Fin dalle prime righe ci viene annunciato che stiamo leggendo un romanzo d’amore. Più avanti si capirà che si tratta piuttosto di un romanzo sull’amore, che “ragiona d’amore” come avrebbero detto gli stilnovisti. Una lettera d’amore anonima viene recapitata alla protagonista e dopo avere sollecitato la sua curiosità, averla messa in uno stato di piacevole ansietà, avere suscitato il suo bisogno di confidarsi con la migliore amica che vive a Parigi, infine la obbliga a una lunga riflessione sugli anni della sua prima giovinezza, quelli in cui l’amore è una scoperta. La trama dell’inizio è dunque molto simile al romanzo di Catleen Shine La lettera d’amore, che ebbe molto successo qualche anno fa e vi sono anche altri elementi comuni. Il più importante è una convinzione che potremmo definire “politica”: l’amore non ha nulla a che fare con quel modello che tutta la cultura (compresa quella dei romanzi d’amore — penso ad autrici come Barbara Cartland o Judith Krantz) ci veicola e le convenzioni ci impongono: l’unione eterosessuale sancita dal matrimonio. Per Shine, e certamente anche per Giacobino, questo modello altro non è che un contratto, utile (forse) per costituire le basi di una famiglia; all’interno di questo contratto l’amore, se c’è, non guasta, ma non è indispensabile. Per secoli l’umanità si è regolata così e solo con il tardo romanticismo amour-passion e matrimonio eterosessuale hanno incominciato a coincidere nell’immaginario collettivo. In questi moderni romanzi d’amore la separazione del sentimento dal contratto viene invece fortemente riaffermata e più che una passione, ci viene descritta un’ossessione, un corto-circuito neuronale, una malattia secondo Giacobino, che colpisce senza tenere nessun conto dell’età, del sesso, dell’opportunità e presentabilità sociale delle nostre emozioni. L’amore insomma è uno stato di profonda anarchia, un disordine indomabile e irriducibile.
Marina dunque si reca a Parigi. In tasca ha la sua misteriosa lettera d’amore ormai spiegazzata per le molte letture. Vuole mostrarla alla sua più vecchia e cara amica, Elisa, ritrovando con lei quella relazione di intima confidenza che le lega fin dall’infanzia. Qui nel romanzo di Giacobino si coglie un’altra somiglianza, o forse una citazione, questa volta dal mondo del teatro: quello stato di sospensione che l’attesa (e in particolare l’attesa inutile) porta con sé, è ciò che rende possibile un processo della coscienza. Nel caso di Aspettando Godot, Samuel Beckett immette gli spettatori in un processo senza fine in cui l’incontro con Godot, sempre rimandato, porta alla coscienza proprio la mancanza di un fine, e il vuoto dell’attesa diventa il vuoto con cui fare i conti, sospesi sull’orlo dell’abisso spalancato in uno sbadiglio cosmico. Per Marina l’attesa dell’amica diventa un processo di riepilogo della propria educazione sentimentale, come alla ricerca di una risposta alla sua lettera anonima: che donna è la destinataria della lettera? Se potessimo capirlo, forse avremmo gli indizi anche per capire chi è l’autore, o autrice.
Proviamo dunque a capire: Marina nasce in un ambiente ostile. Difficile immaginare un habitat meno amichevole di una famiglia borghese di provincia, alquanto gretta, con le sue meschine aspirazioni alla sicurezza e alla rispettabilità. La genealogia salva soltanto la linea femminile centrale: la madre, col suo cinismo manipolatorio e privo di scrupoli è a suo modo geniale e Marina in fondo ne ama la vitalità ferocemente combattiva e i rari momenti di cruda sincerità. Ma soprattutto c’è una nonna, Emilia, considerata pazza, solitaria, emarginata dalla famiglia, lasciata sola con il suo amore per la terra. A questa nonna-terra, in mancanza di una madre-terra, Marina farà ricorso nel dare un nome a sua figlia: Emilia. La genealogia femminile è salva. Il mondo degli orribili cognati e delle conformiste sorelle sta sullo sfondo, perdendo d’importanza a favore delle relazioni di amicizia e di amore.
Margharet Drabble, autrice inglese con cui Margherita Giacobino ha un rapporto di amicizia, ha esaminato questo triste mondo delle relazioni famigliari, dominato dal non-detto dell’avidità e dell’invidia, nel suo romanzo La strega di Exmoor. Lo sguardo che Drabble getta su questo scenario è tremendamente acuto e al tempo stesso compassionevole; comprensivo senza illusioni, cade dall’alto di una raggiunta saggezza. Nel caso di Giacobino questo distacco non c’è. Sotto il velo abbastanza sottile dell’ironia si avverte una punta di amarezza che rende il personaggio in un certo senso più umano, più vicino e comprensibile. Marina, la sorella piccola che ha sempre tenuto un comportamento non adeguato agli orizzonti limitati delle sue noiose sorelle (ad esempio ha sempre coltivato l’amicizia di un suo coetaneo, emarginato dal paese di benpensanti per le sue origini incerte), viene regolarmente “bidonata” quando si tratta di dividere equamente qualche proprietà di famiglia. E questo, persino per lei, è normale. Le importerebbe in fondo poco se in cambio della sua rassegnazione ricevesse almeno un po’ di affetto e comprensione. Ma ovviamente non è così. Il suo disinteresse è un’ulteriore prova della sua lontananza dai valori della famiglia e dunque, in un certo senso, giustifica il “bidone”. Questo meccanismo così perverso e così comune è descritto da Giacobino con spirito, ma il divertimento non copre la sofferenza, la solidarietà partecipe dell’autrice con la protagonista. Il bisogno di rivalsa c’è e verrà fuori sotto forma di sfida: la giovane donna ritorna al paesello grandiosamente incinta, gettando lo scompiglio nelle vite dei suoi gretti parenti.
E l’amore? Certamente la piccola Emilia nasce da un amore e per amore. Questo è l’evoluzione di un attaccamento infantile e dell’infanzia ha l’innocenza, la partecipazione totale del corpo e dell’anima. Il senso più coinvolto nell’esperienza erotica che Margherita Giacobino descrive in modo simpaticamente casto è certamente il tatto. Una grande carezza è passata dal corpo bambino al corpo adulto, che può generare.
Ma avremmo dovuto parlare di “amori”, incrociati, composti da molte figure geometriche — triangoli soprattutto, intrecciati. L’altro grande amore di Marina è per una donna: Laura. Qui il senso attraverso cui passa l’innamoramento è la vista. Laura è guardata. Dapprincipio è addirittura spiata, poi è vista attraverso l’obiettivo della macchina fotografica: i suoi ritratti si accumulano nella stanza di Marina, nascosti sotto il letto. Non per caso è Laura a convincere Marina, che è miope, a farsi fare un paio di occhiali, e ad andare a sceglierli con lei. L’amore per Laura è dunque innanzitutto un’ossessione visiva, che comincia con un senso di dominio: Marina osserva Laura, che non sa di essere osservata, ma il dominio non vede l’ora di trasformarsi in una resa. Uno dei più noti luoghi comuni sull’amore è che vince chi fugge e nell’arte della fuga Laura è una grande maestra. L’amore di Laura è un fuoco fatuo, che tende a dissolversi addirittura verso un altro continente. Il fantasma di un amore. Ma forse è proprio questa la conclusione del processo che la protagonista compie nel tempo sospeso della sua attesa di un colloquio che non ci sarà: un’illusione, una presenza-assenza, un profumo evanescente fatto della materia inconsistente dei sogni.
Eppure… La lettera d’amore è ancora nella tasca di Marina. Quando lei la rilegge per la millesima volta il foglio su cui è scritta le sembra un po’ meno accartocciato, un po’ meno pronto a svanire di come le era parso qualche giorno prima.
Ferdinanda Vigliani