Juliet Mitchell, La condizione della donna
Torino, Einaudi, 1972, 201 p.
Titolo originale: Woman’s estate, Harmondsworth, Penguin Books, London, 1970
Nata in Nuova Zelanda nel 1940 e vissuta sin dall’infanzia in Inghilterra, Juliet Mitchell prende parte attiva al movimento femminista: questi dati di vita unitamente alla sua preparazione come studiosa, segnano il suo approccio al tema della liberazione femminile. La lunga tradizione di lotta dei sindacati inglesi l’avvicina al marxismo e la consuetudine con gli studi psicanalitici la indirizza verso la psicanalisi. Coniugare queste due “Bibbie” del ventesimo secolo è l’impresa che si prefigge in questo libro.
In origine si trattava di due saggi distinti, il primo era apparso nel 1966 sulla «New Left Review» con il titolo Women: the Longest Revolution e il secondo era dedicato al Women’s Liberation Movement, apparsi successivamente insieme in questo volume. Di questa forzata coesistenza il libro risente in coesione interna, rendendo meno efficace il filo conduttore della ricerca.
L’analisi della condizione femminile nelle società a capitalismo avanzato, finalizzata a mettere a fuoco gli obiettivi di un movimento per la liberazione della donna, costituisce la prima parte del libro, mentre la seconda, di carattere teorico, affronta l’individuazione della risposta politica che il movimento si deve dare. Rispetto alle studiose americane, intente come lei a districare la matassa delle cause della subordinazione femminile, si distingue per l’adozione, dal punto di vista metodologico, del marxismo e della psicoanalisi come strumenti capaci di fornire la chiave interpretativa del problema e la strategia politica da adottare perché il movimento femminista abbia successo.
Il testo che stiamo prendendo in esame compare a Londra nel 1970, quando le associazioni femministe americane — con le quali Juliet Mitchell si confronta — avevano già maturato un’esperienza di azione e di elaborazione autonome rispetto al più generale movimento dei diritti civili, del Black Power e degli studenti. Anche il femminismo europeo iniziava ad avere connotati propri. Con il corso del tempo i Movimenti dei vari paesi presenteranno vistose diversità di fondo nella valutazione da dare alle cause della subordinazione della donna, sia in ragione delle proprie radici storiche, sia per l’influenza esercitata dalle ideologie geograficamente prevalenti: più vicine al Black Power quelle americane, di natura marxista quelle italiane, influenzate dalle lotte sindacali quelle inglesi.
Il confronto con quanto il Women’s Liberation Movement — denominazione da lei adottata per indicare i vari movimenti che si erano sviluppati in occidente alla fine degli anni ’60 — aveva elaborato costituì il riferimento costante per la sua ricerca, ora per prenderne le distanze, ora per sottolinearne una possibile convergenza. La sua attenzione si sofferma in particolare sull’opera di Kate Millet, La politica del sesso del 1969 e di Shulamith Firestone, La dialettica dei sessi del 1970. Il lavoro di Kate Millet viene ritenuto preziosissimo per aver formulato la teoria del patriarcato, come interpretazione dei rapporti sociali tra i sessi, alternativa alle formulazioni economicistiche e a quelle emancipazioniste di Betty Friedan. Sulla teoria del patriarcato, come base interpretativa della subordinazione femminile, Mitchell conviene, ma, al contempo, rileva un’eccessiva riduttività nella trattazione presentata da Millet. Il pericolo di questa generalizzazione (tutti gli uomini, in quanto tali, sono oppressori) è che non si vedano le complesse articolazioni del patriarcato e le sue diverse configurazioni a seconda delle aree geografiche e delle culture. Ben diverso è il giudizio sul lavoro della Firestone: “Il corroborante libro di Shulamith Firestone, La dialettica dei sessi, è il punto di massimo sviluppo della teoria sino ad oggi” (p.95). La convergenza con la Firestone avviene sul tema della famiglia, come fonte primaria della subordinazione femminile e sul ruolo che vincola la donna all’imperativo biologico.
In quanto al marxismo, dopo aver rilevato come in nessuna altra teoria compaia una trattazione così estesa della condizione della donna, ne constata però l’arresto ai primi socialisti: “Fino a questo momento la liberazione femminile rimane un ideale normativo, aggiunto alla teoria socialista, più che in essa integrato strutturalmente” (p. 88). Tuttavia, Mitchell mantiene valida la necessità di cambiare i rapporti di produzione, come condizione perché quella libertà abbia luogo: “Finché non ci sarà una rivoluzione nella produzione, la situazione lavorativa determinerà la posizione della donna in un mondo di uomini” (p. 109). E ancora: “Quello che ci serve è una teoria abbastanza vasta e capace nel contempo di specificità (…) dobbiamo porci le domande femministe e cercare di rispondervi marxisticamente” (p. 109). Del marxismo intende però utilizzare più il metodo di analisi della realtà umana — il materialismo storico — che le soluzioni prospettate per la “questione femminile”. La rivoluzione socialista, dice, per sé stessa non è sufficiente a liberare la donna, poiché ad essa rimarrà sempre un ‘universo’ tutto suo: la famiglia. “Esse sono sfruttate sul lavoro e relegate nella casa, sono queste le due posizioni che compongono la loro oppressione (p. 109).
L’ideologia dominante presenta la donna e la famiglia come un tutto indifferente, dice, come qualcosa di inalterato e inalterabile nel tempo e nello spazio geografico; ma non è così: entrambe, la donna e la famiglia possono essere modificate. Ciò che occorre è sì un cambiamento di tipo economico (come prospettato dal socialismo) purché questo si accompagni a un intervento di tipo psicoanalitico teso a destrutturare la psiche femminile, invischiata nel ruolo biologico della riproduzione (cosa che non succede per l’uomo) e nella “claustrofobica” istituzione che prende il nome di famiglia. “Ogni analisi della donna e della famiglia deve quindi sbrogliare questo concetto ideologico della loro immutabilità e della loro unificazione in un tutto monolitico, la madre, il figlio (…), il posto della donna (…) il suo destino naturale.” (p. 110). In questo secondo passaggio ritroviamo il punto di congiunzione con la teoria di Firestone, che auspicava l’avvento della tecnologia nel campo riproduttivo al fine di svincolare la donna dalla dipendenza biologica e per mettere fine “al lavoro senza gioia, al lavoro di fabbrica e al travaglio del parto” (p.97).
Un’importante intuizione di Mitchell è nella individuazione delle componenti interne al patriarcato, da lei denominate le “quattro strutture”, che presiedono, accompagnano e determinano la condizione femminile. Esse sono: la Produzione, la Riproduzione, la Sessualità e la Socializzazione dei figli (maiuscolo nel testo). “Le variazioni nella condizione femminile attraverso i secoli saranno il risultato delle diverse combinazioni di questi elementi” (p. 111). L’esame delle “quattro strutture” nella realtà storico-geografica dell’Inghilterra costituisce la parte centrale del libro: un resoconto “fattuale e impressionistico”, come l’autrice stessa lo definisce, finalizzato a rendere evidente come nella famiglia si concentrino le condizioni di subordinazione della donna.
Qual è il rapporto della donna con queste strutture? La Riproduzione è il nodo cardine del problema della subordinazione. Mentre prima della possibilità offerta dalla contraccezione la donna era soggetta a processi biologici che esulavano dal suo controllo, successivamente, potendo controllare le nascite, la riproduzione non sarà più la sola e la prima sua vocazione, ma solo una fra tante possibili scelte. La conseguenza sarà la dissociazione tra l’esperienza sessuale e la riproduzione, cui seguirà la crisi della ragion d’essere della famiglia come luogo “naturale” e immodificabile per la perpetuazione della specie. “Finché si permetterà che essa rimanga un sostituto di azione e creatività, e che la casa sia un luogo di riposo per gli uomini, la donna rimarrà confinata alla specie, alla sua condizione universale e naturale” (p. 120). La relazione con la Produzione non si è dimostrata una via di salvezza per la donna, nonostante la diversa qualità del rapporto. Non è vero ciò che sostenevano i socialisti storici: che l’immissione della donna nel mondo della produzione avrebbe fatto di lei una persona cosciente dello sfruttamento, quindi propensa a unirsi con gli altri lavoratori per un obiettivo rivoluzionario, trovando in questo sbocco la fine della sua oppressione. Il lavoro produttivo non serve a sganciare la donna dalla famiglia, anche in presenza di un’autonomia economica, e in quanto alla rivoluzione socialista, questa non ha dato i frutti desiderati. L’importanza della Socializzazione dei figli in capo alla famiglia è diminuita per l’espandersi di altre agenzie educative e per il ridimensionamento ideologico del ruolo materno. Infine, il controllo sociale della Sessualità riesce sempre meno a regolare il comportamento spontaneo, con la conseguente minaccia di instabilità coniugale. Ma, al contempo, il divorzio rafforza l’istituto del matrimonio: “La lezione di queste riflessioni è che la liberazione della donna si potrà ottenere solo se verranno trasformate tutte e quattro le strutture in cui essa è integrata” (p. 131). Quella che la donna subisce non è tanto un’oppressione generica, né questa proviene dagli uomini in generale, afferma Mitchell, ma dagli uomini in alcuni ruoli specifici, come ad esempio il padre o il marito. Ruoli che ritroviamo in un contesto ben preciso, quello della famiglia. Sarebbe quest’ultima a determinare la deformazione psichica della donna, a causa della reclusione e dell’isolamento in cui essa viene a trovarsi.
Quale strategia politica deve dunque darsi il Women’s Liberation Movement? Qui si ha la seconda importante ipotesi di lavoro politico di Juliet Mitchell: solo la psicoanalisi può esercitare un effetto destrutturante della psiche femminile. Polemizzando con l’aprioristico rifiuto da parte del femminismo radicale della psicoanalisi, a causa della sua “sgradita ideologia”, Mitchell ne propone una rilettura da un’angolazione femminista. In realtà, dice, questa posizione negativa è dovuta a una volgarizzazione delle teorie postfreudiane, che hanno ridotto questa scienza a puro empirismo. Ma ciò che la psicoanalisi può dare alla liberazione della donna è determinante ai fini della sua liberazione. Per la psicoanalisi è nel passaggio dalla condizione biologica a quella sociale (socializzazione dei figli) che si forma la psiche e questo momento di passaggio è, per Mitchell, “l’area che tutte le analisi sulla posizione e sul significato delle donne devono esplorare” (p. 189). “L’embrione della famiglia è la fonte della creazione psichica degli individui ed ha alcune caratteristiche universali: genitori eterosessuali e loro prole” (p. 19). Le interrelazioni primarie fra gli individui avvengono dunque nella famiglia (nelle sue varie forme) ed è qui che occorre concentrarsi, perché, se gli uomini stanno “dappertutto”, le donne stanno nella famiglia. “Nella famiglia si trova la funzione sociale e l’identità psichica delle donne come gruppo” (p. 201). Pertanto, volendo operare su questi due termini, donna e famiglia, il socialismo, come la psicoanalisi, non possono essere ignorati: il primo opera sulla società, la seconda sulla formazione psicologica.
Il presupposto di questo ragionamento è che vi sia nelle donne un’attitudine psichica a percepire sé stesse in modo svalutativo, conseguente al potere negativo esercitato dalla famiglia, la quale è a sua volta inserita in una società sessista. Se gli uomini detengono un potere coercitivo sulla donna occorre chiedersi, scrive Mitchell, “che cosa mai gli ha dato origine e cosa mai potrà abbatterlo se non un potere costrittivo della psicologia femminile” (p. 197). Coerentemente con questa sua visione, Juliet Mitchell dedicherà i suoi studi successivi alla psicoanalisi e nel 1974 pubblicherà Psicoanalisi e femminismo
L’elaborazione dell’autrice ricade ancora all’interno del sapere costituito, pur distaccandosene per un uso finalizzato alla liberazione femminile, dal momento che fa capo alle due grandi teorie della seconda metà dell’Ottocento (il marxismo) e del primo Novecento (la psicoanalisi), mentre non tiene conto di un possibile sapere che nasce dalle donne stesse. L’autocoscienza, con la pratica del “partire da sé” e la conseguente nozione di “differenza” (di genere o sessuale) non rientrano nel suo orizzonte teorico, benché siano già presenti (la prima, in particolare) nell’esperienza anglosassone. Fu soprattutto a causa di questa sua impostazione che il libro non ebbe una reale influenza sul nascente movimento femminista italiano. Certamente la sua diffusione fu ampia e le tesi sostenute sollecitarono non poche discussioni. Ma, stando ai documenti relativi agli anni Settanta, non si trovano molte tracce di un’adesione significativa. Il tema della psicoanalisi, in particolare, così come prospettato da Mitchell, non venne recepito dal nostro movimento, anche se la “pratica dell’inconscio” ne ha rivalutato il ruolo: non come mezzo terapeutico, ma come strumento di approfondimento dei conflitti tra donne.
Né il femminismo radicale, né quello di matrice marxista, dunque, fecero proprie le tesi di Juliet Mitchell: le une a causa del rifiuto del marxismo come teoria capace di includere la liberazione femminile, le altre, al contrario, per un’adesione troppo spesso acritica al marxismo. Per entrambe, la psicoanalisi era considerata espressione di una cultura fallologocentrica e borghese. Inoltre, furono proprio gli aspetti ignorati dalla Mitchell a segnare definitivamente il corso del femminismo, ossia l’autocoscienza e la “differenza”.
(Aida Ribero)