Kate Millett, La politica del sesso, Milano, Rizzoli, 1971, 533 p.
Titolo originale: Sexual Politics, 1969
Scheda critica di Ferdinanda Vigliani
Nella sua premessa a La politica del sesso Kate Millett sentiva il bisogno di avvertire le lettrici e i lettori: latesi che il suo saggio, spaziando dalla letteratura alla storia, al pensiero politico, voleva dimostrare era che“il sesso ha un aspetto politico di frequente trascurato”. Nel 1969 si trattava di un’affermazione tutt’altro chescontata. Tanto che l’autrice, dopo avere citato tre passi letterari, tratti dall’opera di Henry Miller, NormanMailer e Jean Genet, in cui a descrizioni sessuali assai esplicite si mescolavano in modo particolarmentesignificativo i concetti di potere, superiorità, dominio del maschio, così spiegava la tesi del suo saggio:
Non si può certo affermare che il coito abbia luogo in un vuoto; sebbene di per sé risulti essere un’attività biologica efisica, è così profondamente radicato nel più ampio contesto delle vicende umane che può essere considerato unmicrocosmo saturo dei vari atteggiamenti e valori a cui aderisce la cultura. (…) Ma, naturalmente, ilpassaggio da quel tipo dirapporti intimi a un più ampio contesto di riflessi politici costituisce in realtà un gran passo. (…) Con il termine “politica” cisi riferirà ai rapporti strutturali sul potere, agli ordinamenti per cui un gruppo di persone è dominato da un altro gruppo (p.41)
Kate Millett definiva il suo saggio un lavoro pionieristico e lo fu veramente, per più di un aspetto. Nell’avermesso in luce l’antitesi naturacultura così onnipresente nel patriarcato: la donna è natura e “naturali” sono lecause della sua oppressione. Nell’aver fatto rilevare il carattere parziale e colonialista della cosiddettaoggettività maschile. Nell’aver messo in luce i modi spesso sotterranei e impliciti in cui l’arte, la letteratura, lafilosofia, la psicologia e la psicoanalisi sono armi efficaci di una politica del sesso che subordina la donna,relegandola al suo ruolo biologico di madre o di oggetto sessuale, destinato a gratificare con la sua inferiorità “naturale” l’ego maschile.
Dopo i chiarimenti dell’autrice sul suo metodo non convenzionale, che occupano il primo e il secondo capitolo, ilvolume risulta suddiviso in due ampie sezioni: la prima ha un carattere storico, o, per meglio dire, di storia dellacultura; la seconda è di critica letteraria, intesa, secondo le parole dell’autrice, come “un’anomalia, un ibrido, una vianuova” basata sul presupposto che vi sia spazio per una critica che prenda in considerazione il più vasto contestoculturale nel cui ambito la letteratura viene concepita e prodotta. Del resto anche la parte più strettamente storica diquesto lavoro beneficia di un intreccio con la letteratura e la poesia che la rende straordinariamente viva e affascinante.La storia del secolo che va dal 1830 al 1930, con la rivoluzione sessuale del primo femminismo suffragista, legatoall’abolizionismo e alle battaglie civili per il diritto all’istruzione, è spesso vista attraverso le reazioni di coloro (i più)che videro in questa rivoluzione una minaccia per i loro privilegi millenari.
Dalle immagini romantiche e cavalleresche di Tennyson, che augura alle donne di rinunciare, per amore, allabrama irragionevole di istruirsi, alla celebre conferenza di Ruskin che rivolgendosi alle donne con l’altisonanteappellativo di “Regine”, con la metafora del giardino (la conferenza era intitolata Of Queen’s Gardens) e dividendo ledonne in “gigli” e “rose” — le seconde un po’ meno rispettabili delle prime, secondo la cultura vittoriana — faceva appelloalla naturale superiorità morale della donna, che trovava la sua più alta realizzazione nella famiglia. Retoriche un po’melense, che volutamente stendevano un velo sulla povertà e lo sfruttamento delle donne lavoratrici, sulle degradanticondizioni delle prostitute, sulla sostanziale assenza di diritti delle donne. Anche delle borghesi, che secondo la poeticavisione del giardino, beneficiavano di una invidiabile tranquillità, assicurata loro dalla protezione maschile.
Pochissimi gli intellettuali che sostennero la rivoluzione sessuale: John Stuart Mill, il cui saggio Subjection ofWomen è contemporaneo alla conferenza di Ruskin, sul finire degli anni Sessanta dell’Ottocento; di poco più recente(1884) è il saggio di Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato. Mill in particolareviene citato da Millett come il primo importante assertore dell’irrazionalità di ogni richiamo alla “natura femminile“come giustificazione di uno stato di subordinazione. Sul piano psicologico il contributo di Mill è importante neldefinire la natura della donna come qualcosa di “eminentemente artificiale, risultato di una repressione coattiva incerte direzioni, di una stimolazione innaturale in altre“1. Tale sua convinzione gli valse gli attacchi più furibondi daparte dei conservatori di cui i suoi scritti avevano lucidamente smascherato le blandizie cavalleresche. Viene proprioda Mill l’utile suggerimento di diffidare di quanti asseriscono che le donne sono migliori degli uomini: una noiosabanalità fatta apposta per dare un aspetto complimentoso all’offesa.
Opera fortemente anticipatrice per molti aspetti, il saggio di Kate Millett, nell’affrontare L’origine della famiglia,della proprietà privata e dello stato di Engels e Il matriarcato di Bachofen tocca il tema, ancora oggi in discussione,delle origini del patriarcato.
Probabilmente ci si dovrebbe accontentare di mettere in dubbio il carattere primordiale delle origini patriarcali, con laseguente argomentazione: poiché quello che abbiamo di fronte è un’istituzione, il patriarcato deve, al pari di altre istituzioniumane, avere avuto origine ed essere sorto da circostanze che possono essere inferite o ricostruite, quindi se così stanno lecose, deve essersi verificata qualche altra condizione sociale antecedente al patriarcato. (pp. 141–142)
È in particolare l’Orestiade di Eschilo, riesaminata da Millett sulle tracce di Bachofen, a costituire un punto diriferimento nel mito, che testimonia il passaggio al patriarcato. Ma se tali origini restano in larga parte avvolte nelmistero, fin dagli scritti di Engels ne vengono messi in evidenza gli effetti fondanti di ogni disuguaglianza eingiustizia sociali.
Il primo antagonismo di classe della storia coincide con l’antagonismo che si determina tra uomo e moglie nellamonogamia, e la prima oppressione di classe con l’oppressione della femmina da parte del sesso maschile2.
La conseguenza dell’analisi di Engels è che la famiglia, nell’accezione attualmente attribuita a tale termine, devescomparire. “Engels era ai suoi tempi l’eresia — conclude Kate Millett — ma la rivoluzione è sempre eresia, e larivoluzione sessuale lo è forse più di ogni altra.” (p. 163)
Molto lontana dalle generose utopie engelsiane la politica attuata in Russia dal partito comunista. In svariateoccasioni Lenin dichiarò che quello della rivoluzione sessuale era un tema non abbastanza capito, ma non cosìimportante da anteporlo ad altri problemi più “seri”. È di Trotzkij l’ammissione dell’impossibilità di abolire lafamiglia, a meno di poterla “sostituire”. E nel 1936, con un pittoresco linguaggio burocratico, un funzionario delpartito di nome Svetlov dichiarava che essendo lo stato “nell’impossibilità temporanea di assumersi le funzioni dellafamiglia, si vedeva costretto a conservarla” (p. 216). Nello stesso anno 1936 l’excursus storico di Millett segnala nelsecondo piano quinquennale di Stalin il divieto di aborto nelle prime gravidanze e nel 1944 l’abolizione di ogni formadi aborto legale.
Il rifiuto dei comunisti di prendere sul serio la rivoluzione sessuale trova un suo contrappeso storico nell’estremaserietà con cui il nazismo e il fascismo si impegnarono a fondo per distruggere ogni traccia di femminismo. La parteassegnata alle donne nella Germania di Hitler doveva limitarsi a una dedizione totale alla maternità e alla famiglia. Lefemmine non dovevano superare, secondo un decreto governativo, il numero di una ogni dieci studenti universitarie di un terzo degli studenti medi. L’obiettivo era restituire le donne alla casa, togliendole sistematicamente dalleprofessioni. È del 1936 il divieto delle donne di ricoprire cariche nei tribunali. C’erano trenta donne nel Reichstagquando i nazisti andarono al potere, nel 1938 non ce n’era più nessuna. Nei discorsi di Hitler ricompaiono i temifalsamente cavallereschi del secolo precedente:
La ragione è dominante nell’uomo. Egli cerca, analizza, e spesso apre incommensurabili orizzonti. Ma tutte le cose cui eglisi accosta solo con la ragione sono soggette al mutamento. Il sentimento, al contrario, è di gran lunga più stabile dellaragione e la donna è sentimento e pertanto l’elemento stabile3.
La ricognizione storico-culturale de La politica del sesso si conclude toccando l’ambito della psicoanalisi. Lateoria freudiana dell’invidia del pene e del complesso femminile di castrazione viene qui radicalmentecriticata.
Dato che Freud non dispone di alcuna prova oggettiva di qualche importanza da citare a sostegno del suo concetto diinvidia del pene o del complesso femminile di castrazione, non si può non rimanere colpiti dall’assoluta soggettività con laquale tutti questi eventi vengono esposti e che tende ad essere esclusivamente di Freud, o dall’esistenza di una forteprevenzione maschile, addirittura di un preconcetto piuttosto volgare di supremazia maschile. (…) Ed è curioso soprattuttoimmaginare che una metà del genere umano debba attribuire la sua chiara e ovvia condizione di inferiorità sociale alleragioni biologiche più grossolane, quando sono in gioco tanti altri fattori sociali più degni di nota. (p. 229)
Bisogna qui osservare che la critica alla psicoanalisi di Kate Millett va collocata nel quadro del primofemminismo statunitense. Successivamente, tra le studiose femministe e soprattutto in Europa, tale criticaassunse toni più sfumati e in alcuni casi la psicoanalisi come metodo venne impiegata dal femminismo confinalità tutte nuove. Basti pensare a Psychanalyse et Politique in Francia e ai gruppi di Pratica dell’Inconscioin Italia.
La seconda parte del saggio di Kate Millett esamina l’opera di quattro scrittori: D. H. Lawrence, Henry Miller,Norman Mailer e Jean Genet. L’idolatria del fallo e la “sottomissione profonda, completa e insondabile” della donnasono temi che nell’opera di Lawrence potrebbero essere facile bersaglio di una giustificata ironia. E così l’aggressivitàsessuale alquanto “guascone” di Henry Miller, o l’ostilità meschina e crudele di Norman Mailer, che hannocomunque sempre la donna come vittima. Autori che hanno trattato di sesso e lo hanno fatto in modo da prestareampiamente il fianco allo sberleffo: arte non ignota alle donne. Ma dopo tanti esempi di “cavalleria” dai dubbi propositi,qui Kate Millett ci dà un esempio di cavalleria autentica. La sua critica a questi autori è completamente leale: privasia di servilismo che di scherno. Le motivazioni di questi scrittori sono prese sul serio: il richiamo ideale alla naturaincontaminata negli scritti di Lawrence, la ferocia di Miller contro le angustie del puritanesimo, persino l’ambivalenzaschizofrenica di Mailer sono esaminati in modo equilibrato. Una dimostrazione nei fatti della validità della scelta peruna critica “situata”, che dichiara in anticipo il suo taglio soggettivo.
Il capitolo dedicato a Genet è quello conclusivo. Si tratta di un autore che secondo Millett merita un posto aparte, per la lucidità con cui il suo sguardo si è posato sulla politica del sesso.
Unico tra gli scrittori contemporanei, Genet ha pensato alle donne come a un gruppo oppresso e a una forzarivoluzionaria, e ha deciso di identificarsi con loro. La sua storia peculiare, la sua analisi delle persone espropriate, loinducono inevitabilmente a un’empatia con tutto ciò che è schernito, relativo e soggiogato. (p. 432)
Nel postscriptum Kate Millett formulava l’auspicio di un’alleanza del femminismo con il movimento dei giovani edei negri. In Italia anche Carla Lonzi aveva messo in luce la vicinanza alle donne di quei giovani maschi cherifiutavano (ad esempio attraverso l’obiezione di coscienza antimilitarista) di entrare a far parte dell’ordinepatriarcale. Quanto al movimento dei neri, esso manifesta oggi un aperto antifemminismo, che del resto spuntava già,anche se in modo meno dichiarato, ai tempi delle Pantere Nere. Una speranza dunque, quella di Kate Millett, che lastoria ha ampiamente tradito, senza però smentire la similitudine tra le due oppressioni e colonizzazioni culturali:una di razza e l’altra di sesso. Continua a vivere invece la speranza nella rivoluzione sessuale che liberi — sono le paroleche concludono il libro — “metà della razza umana dalla sua immemorabile subordinazione, riavvicinando così moltodi più noi tutti all’umanità”.
Ferdinanda Vigliani – nel gruppo fondatore del Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile di cui è presidente. Partecipa a questo biblioblog.
1 John Stuart Mill, The Subjection of Women (1869), ristampato in Three Essays by J.S.Mill , World’s Classic Series, Londra,Oxford University Press, 1966 (p.430) Ed. it. La servitù delle donne, Milano, Legros, 1870 e Roma, Savelli, 1976.
2 Friedrich Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, Roma, Editori Riuniti, 1963.
3 Adolf Hitler, citato in N.S Frauenbuch, Munchen, J.F. Lehmann, 1934, pp. 10–11.