A cura del gruppo Anabasi, Milano, Donne è bello
Casalfiumanese : Grafiche Liton, 1972
“Donna è bello” o “Donne è bello”? Il titolo vero era Donne è bello, ma non importa, nel movimento resterà sempre questa ambiguità della memoria, fra l’una e le tante, da uno slogan americano tradotto. Questo numero unico, a metà tra libro e rivista, è pubblicato da un gruppo dal nome colto, l’Anabasi, che porta con sé le reminiscenze senofontiane di una “spedizione verso l’interno” di un paese, di un continente.
L’Anabasi nasce nel giugno 1970 a Milano, quasi contemporaneamente al primo nucleo, a Roma, di Rivolta Femminile. Ne fanno parte una decina di giovani donne, eterogenee per provenienza e ruoli sociali, come viene sottolineato nel primo lavoro, a cura di Anna Rita Calabrò e Laura Grasso, che ricostruisce a più di dieci anni di distanza le vicende di questo gruppo[i]. È Serena Castaldi a raccontare nella lunga intervista contenuta in questa ricerca come, tornata da un viaggio in America con documenti del movimento femminista, avesse intenzione di farne un libro e come questo progetto fosse sfumato per divergenze con un’altra donna, conosciuta da poco, con la quale avrebbe invece dovuto lavorare.
I documenti, in maggioranza dagli Stati Uniti, ma anche da Francia, Gran Bretagna, Argentina e Italia, girarono allora ciclostilati e solo più tardi vennero pubblicati con il titolo di Donne è bello. A questa seguì un’altra pubblicazione, Al femminile, una raccolta di scritti di donne del gruppo: “e sono usciti a breve distanza l’uno dall’altro, all’inizio del ‘72”[ii].
Donne è bello è diviso in sezioni che corrispondono a molteplici grandi temi su cui il femminismo lavorerà nei decenni successivi: spazia dalle esperienze dell’oppressione femminile legata ai ruoli tradizionali al disegno di prospettive di liberazione delle donne. Gli scritti riflettono una duplice tensione, la prima descrive l’oppressione sociale, risalendo, più che alla storia, alla preistoria, incrociando economia e antropologia: al centro stanno la descrizione dello sfruttamento economico della donna, la questione di un possibile matriarcato primitivo e l’esplorazione di quella realtà fino ad allora indicibile del corpo, nella sua anatomia e fisiologia sessuale e nel mistero del suo presunto o del suo autentico godimento. Riporto alcuni titoli, sui quali all’epoca mi soffermai con maggiore attenzione: Evelyn Reed (USA), Il mito dell’inferiorità della donna, (p. 31); l’autrice sarà letta poco dopo per il suo Sesso contro sesso o classe contro classe?; Cristine Dupont (Francia), Il nemico numero uno, un’analisi economicopolitica del lavoro femminile, in polemica con i “marxisti” classici, (p.40); Roxanne Dunbar, Le donne come casta; Liberazione della donna come base per una rivoluzione sociale (pp. 66 e 72); Ann Koedt (USA), Il mito dell’orgasmo vaginale (p. 48).
Una sezione intitolata Dibattito con la sinistra (pp. 118–132) comprende documenti di gruppi italiani, come il Cerchio spezzato di Trento, o stranieri, come Le torchon brüle (Francia) e le Redstocking (USA). Regna nel fascicolo un certo felice disordine classificatorio: la sezione finale, Manifesti, riproduce fra gli altri il Manifesto di rivolta femminile (p. 141), mentre in data “estate 1970” compare in una parte precedente un frammento da Sputiamo su Hegel firmato da Carla Lonzi (p. 84).
La pubblicazione del Manifesto delle Redstocking, il gruppo nato a New York nel febbraio 1968 anche ad opera di Shulamith Firestone, autrice de La dialettica dei sessi, contiene la proposta dell’autocoscienza come base di un sapere rivoluzionario: “Noi consideriamo la nostra esperienza personale, e i nostri sentimenti su questa esperienza, come la base dell’analisi della nostra comune situazione” (p. 138). Il tema, nuovo ancora per le donne del nostro paese, è approfondito nella sezione intitolata Proposte: lì compaiono parole come “sorellanza”, “piccolo gruppo”, “prender coscienza”, “oppressione” e “autocoscienza” (pp. 93–117; si legga per esempio, di C. Hanish, USA, Ciò che è personale è politico, p. 107).
Uno scritto proveniente dall’Argentina proponeva, in anni in cui scarso, se non osteggiato, era l’interesse al tema della religiosità femminile, non solo la critica al sessismo della Chiesa cattolica, ma una riflessione originale su come nel cristianesimo non fosse “stata rivelata la salvezza che a metà” (Le donne e la Chiesa, p. 90).
Colpisce, come spesso avviene per la produzione iconografica del movimento, la finezza della grafica, la varietà e la vivacità delle vignette, delle foto, dei disegni (le cui autrici non si firmano), che rivelano una capacità di assimilazione e di reinterpretazione di esperienze di avanguardia del nostro secolo, ad esempio la poesia visiva. Si rivela una professionalità femminile agli inizi, come risalta in analoghe esperienze coeve (si può confrontare Sottosopra. Esperienze dei gruppi femministi in Italia). Anche Donne è bello sembra banco di prova e luogo di libera espressione per future disegnatrici, grafiche, fotografe. A questo lavoro creativo si accompagna, non a caso, l’analisi dell’immagine femminile e la denuncia di stereotipi e deformazioni violente nel suo utilizzo nel mondo dei consumi e nei mass-media (si veda la sezione Strumenti di comunicazione, da p. 133). Nel 1987, in un numero monografico della rivista Memoria, dedicato a Il movimento femminista negli anni ’70, è proposta una rilettura di Donne è bello da Serena Sapegno. Riconoscendo “l’impatto di questo opuscolo sulle giovani militanti della sinistra dei primi anni ‘70”, l’autrice individua “tre nuclei forti di discorso”: una metodologia d’analisi di origine marxista-leninista applicata a campi nuovi come il lavoro domestico, la veicolazione di un pensiero radical, ancora poco diffuso in Italia (matriarcato, antirazzismo mutuato dal movimento dei neri americani, discorsi sulla sessualità e l’orgasmo,…); il nucleo nuovo era, come si è detto, la descrizione e proposta della pratica del “piccolo gruppo” (“metteva al centro il soggetto e lo rendeva oggetto dell’analisi”). La Sapegno, pur riconoscendo l’importanza storica della pubblicazione, rileva però una certa rozzezza nel discorso sui ruoli:
“L’orizzonte di questi documenti era tutto dentro l’oppressione, nel bisogno di riconoscersi uguali e senza valore se non collettivo, nella ricerca di un’identità comune, e da quell’orizzonte alla lunga soffocante si è uscite cominciando a valorizzare le diversità e le individualità. Ma non senza rischi.”[iii]
Coinvolta, benché critica, la breve rilettura operata dalla Libreria delle donne di Milano, in Non credere di avere dei diritti (pp. 33–35), che riconosce al testo di aver diffuso “il discorso del piccolo gruppo” e “la tesi di un’intrinseca autenticità del vissuto personale e quindi della parola che lo significa”[iv]. Ma ciò che manca nel fascicolo, notano le donne della Libreria, in ovvia sintonia con l’orizzonte interpretativo da esse sostenuto, è “l’idea di una mediazione femminile tra sé e il mondo”.
Ma mi sembra che sia far torto a Donne è bello l’insistere sugli aspetti dell’ideologia, o meglio delle ideologie, che sono senz’altro presenti a testimoniare quanta importanza esse avessero nei primi anni Settanta. Vorrei trasmettere una memoria più calda, perché quella scrittura non esprimeva soltanto una spietata analisi; l’ideologia talvolta rigida (ma quante problematiche si aprirono a partire da quelle rigidità?) sottintendeva una trama di rapporti e rimandava a vite ricche, che meritano di essere ricordate come tali.
Le copie di Donne è bello andarono in giro per l’Italia, diffuse attraverso la vendita in occasione di incontri e convegni. Ne avevo personalmente ricevute dieci dalle mani di Liliana Caruso; fu per me l’occasione per una conoscenza dell’ambiente ospitale della “comune” di via Caccianino 17, dove lei stessa abitava dal gennaio 1972. Le vendemmo tutte, noi di un altro nascente piccolo gruppo, ad un convegno fiorentino su Ideologia, sessualità e controllo sociale. Oggi ce ne sarebbe una copia anche in Giappone, se la rivista non fosse andata troppo letteralmente a ruba: una ricercatrice di Tokio, divenuta poi mia amica, la acquistò, ma ebbe l’ingenuità di prestarla ad una donna presente al convegno che non si degnò di restituirgliela prima della sua partenza. Anni dopo, Keiko ancora se ne rammaricava.
Per far uscire dal silenzio quel periodo, tento un minimo di lavoro filologico: alcune donne dell’Anabasi scrissero negli anni Settanta altri testi. Sottosopra del 1974 cita uno scritto di Liliana Caruso, oggi praticamente introvabile, stampato in proprio in via Caccianino, intitolato Al di là dell’emarginazione femminile[v], che “attacca la sociologia della famiglia che nella sua declamatoria enfasi non ha mai rilevato l’oppressione della donna quale elemento ‘qualificante’ l’istituto familiare, così come le statistiche ufficiali che si sono rivelate un autentico falso della situazione della donna lavoratrice”. Liliana Caruso e Serena Castaldi pubblicano nel ’75 un piccolo e documentato libro, L’altra faccia della storia (quella femminile)[vi], in cui, accanto ad un excursus storico agile e divulgativo, uno dei pochi esempi di interesse per la storia delle donne a scopo anche didattico, si trovano documenti femministi degli ultimi tre secoli, compreso un breve scritto a firma dell’Anabasi (Chi siamo - L’Anabasi, pp.168–170). Sempre Liliana Caruso è autrice insieme a Bibi Tornasi di un altro libro, forse più conosciuto: I padri della fallocultura.
E non è stata ancora adeguatamente riscoperta l’importanza della presenza di Serena Nozzoli, autrice di una delle prime tesi di laurea sulla questione femminile all’Università degli Studi di Milano, con Remo Cantoni, in filosofia morale, Emarginazione della donna e condizionamenti del consenso, divenuto poi il libro Donne si diventa.
Di Serena, spesso vestita di velluto allora non per moda ma per gusto, andrebbe ricordato non soltanto il lavoro intellettuale, ma la sua capacità di trasmettere il meglio di sé nei gruppi di ginnastica e di espressione corporea che negli anni seguenti, tornata dall’India, teneva per le amiche femministe; ci aiutò a percepire il corpo nelle sue plurime possibilità di movimento e nelle sue risorse di energia.
Se si tiene conto di tutto questo, la scrittura ideologica di Donne è bello, nata in anni in cui è di là da venire la riflessione sulla scrittura femminile, si anima. Del resto, nell’intervista citata di Calabrò e Grasso gli aspetti affettivi sono sottolineati come una peculiarità dell’esperienza del gruppo e rivelano oggi la loro valenza politico-culturale:
Perché quello che era stato importante e che era tutt’ora importante nel nostro gruppetto, per cui appunto lo si era voluto piccolo, era che lo avevamo protetto da certi modelli di far politica… era la qualità della comunicazione. Un certo tipo di intimità — se vuoi — di protezione e di rispetto della persona… La cosa invece che mi ha molto frustrata in quasi tutte le situazioni di grossi collettivi… era che questa qualità si perdeva[vii].
Scheda critica di Roberta FossatiRoberta Fossati ‑Storica, socia fondatrice della Società italiana delle storiche, autrice di importanti libri e saggi, sul femm
1 Centro Studi Storici sul movimento di liberazione della donna in Italia, Dal movimento femminista al femminismo diffuso. Ricerca e documentazione nell’area lombarda, a cura di Anna Rita Calabrò e Laura Grasso, Milano, Angeli, 1985.
2A.R. Calabrò, L. Grasso, cit., p. 277.
[iii] S. Sapegno, Riletture: Gruppo Anabasi, “Donne è bello”, Milano, 1972, in «Memoria», n. 19–20 (1–2, 1987) monografico su Il movimento femminista negli anni ’70, pp. 244–246.
[iv] Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Torino, Rosenberg&Sellier. 1987
[v] L. Caruso, Al di là dell’emarginazione femminile, stampato in proprio, Milano, s.d.
[vi] S. Castaldi e L. Caruso, L’altra faccia della storia (quella femminile), Messina-Firenze, G. D’Anna, 1975.
[vii] Calabrò-Grasso, cit., p. 270.