
Armanda Guiducci, La mela e il serpente. Autoanalisi di una donna, Rizzoli, Milano 1974. 275 p.
Scheda critica di Eleonora Chiti[1]
Partendo dall’attenzione ai ritmi del proprio corpo e della propria maternità, l’autrice collega la lettura di sé al destino delle altre donne, vicine e lontane nel tempo e nello spazio (poiché le vicende raccontate “non sono autobiografiche, ma un campione di esistenza femminile”) e ricerca quel “filo scarlatto” che collega l’antica Eva alle donne di oggi, vittime di una ancora tenace presa da modelli culturali imposti e di simbolismi inconsci (“giacché ciò che conta veramente non sono tanto le cose, quanto la simbolicità delle cose”). Le tre parti del testo intrecciano pagine di rilettura storica e antropologica alla narrazione di esperienze vissute: le unisce un linguaggio appassionato e teso dal desiderio che le donne riescano a possedere se stesse “come un corpo e come una mente”.
Nella prima parte del volume, intitolata Il sangue della donna, la prima precoce mestruazione di una ragazzina allevata nei pregiudizi della cultura borghese provoca – come una ferita – la dolorosa sensazione di una differenza umiliante e ingiusta: l’educazione passiva di cui la madre e la nonna sono intrise, circondando di tabù la pubertà, sciupa nell’ignoranza la maturazione della bambina e le impedisce di avvertire la propria femminilità come un valore. La donna adulta, ancora furibonda ma decisa a fare chiarezza, ripercorre il proprio smarrimento adolescente, lo collega alla gabbia di superstizioni che ancora imprigiona le donne che accettano l’impurità del ciclo mestruale, si spinge fino alle antiche radici di quell’inconscio timore della contaminazione che ha generato nelle popolazioni primitive riti e tabù simili a quelli della civiltà moderna. Il timore di ciò che è impuro cela l’ostilità verso la differenza, tende a “creare capri espiatori sulla base del rapporto remoto, oscuro, inconscio, ovunque diffuso e resistente, tra le donne e il male”, mira a esorcizzare la sessualità femminile e a “presentare la donna punita debitrice nei confronti di Dio” (p. 50). Il mito della creazione di Eva – che pure rimanda alla tradizione antichissima del matrimonio consanguineo praticato dalle tribù nomadi – ha assunto grande forza discriminatoria nel plasmare i ruoli dell’uomo e della donna: solo una coscienza critica del paradosso storico che esso nasconde potrà liberare la donna occidentale da quel complesso di Eva che, in forme inconsce, ricatta ancora il terzo mondo femminile d’Europa.
L’entrata nel ruolo (parte seconda) mostra la bambina con boccoli e nastri, vestita di gala, già istruita a recitare la parte di piccola femmina borghese occidentale. Ma la bambina invece cresce nell’odio per le istituzioni, si rosicchia le unghie fino al sangue, rifiuta il cibo, si autopunisce con la sgradevolezza. Costretta a sperperare tempo nelle proibizioni e nei confessionali, la ragazzina cerca di liberarsi nello studio, senza accorgersi che “la nostra antifemminista e pur così materna civiltà” la costringe a recitare in un nuovo teatrino di mitologie: “suggevo, suggevo – come una stupida mosca che si affanna nel secchio in cui è fatale annegherà… giacché è questo il paradosso contradditorio del sogno infantile di emancipazione femminile: affrancarsi attraverso la cultura stessa che ti elide e ti opprime, che non è per te” (p. 94). Ma se i modelli femminili letterari – la madre casta, l’angelo, la maliarda, la traviata – producono una mutilazione culturale, ancor prima di una distruzione mitologica del sesso passa attraverso le categorie e gli stereotipi del linguaggio. La madre che ha voluto una figlia pudica e addomesticata è responsabile della sua forzata innocenza, e l’ha avvezzata a vedere l’uomo solo come un pericoloso portatore di patologie sessuali, rendendole difficile una “presa diretta sul corpo dell’amato” poiché l’ha convinta della “ristrettezza della propria passionalità” e ha svalorizzato la sua diversità turbandola con la rivelazione di una ambigua diversità maschile. Ma è dal fondo stesso della repressione che si sviluppa la ricca messe dei sogni: la stessa libertà espressa da Diotima, Caterina, Teresa d’Avila, Saffo, Emily Dickinson, “donne che hanno coltiva to una diversità” — dice l’autrice — dimostrando ancora come la condanna nei confronti dell’eccesso fantastico femminile affondi le sue radici nell’antico retaggio di orrore verso l’impurità della donna. L’esplorazione delle fantasie e della produzione notturna dell’eros lesbico e del sogno materno di protezione rivela lo scarto tra costruzione culturale e autenticità delle pulsioni. Anche l’immagine sublime della madre che stringe il figlio al seno è stata infatti modellata sul mistico e sull’incorporeo, eliminando ogni istintualità intrisa di eros. Ma il corporeo filiale represso risale al corpo della donna la notte, alle radici dell’istinto.
In Mater Mystica (parte terza) Guiducci racconta la propria maternità: la rivincita dell’aver cresciuto il figlio nella libera e gioiosa confidenza col corpo; l’attenzione alle proprie mutazioni biologiche e ai ritmi che esse imprimono ai sensi e alle fantasie; la difesa dalle superstizioni e dalle convenzioni, ma anche da una sacralità della figura materna di cui — secondo l’autrice — è responsabile tanto certa psicanalisi quanto la Chiesa col suo culto mariano: mentre è necessario scoprire l’autenticità della funzione materna come valore femminile consapevole e non come costruzione mistica o troppo terrena e naturale. Una nuova cultura della maternità deve dare la coscienza che ridurre la diversità femminile solo a questa funzione è cancellare l’orgoglio dell’integrità consapevole. Molte malattie femminili sono nate dal senso di colpa e dal disprezzo del corpo a meno che esso non fosse virginale o materno: dunque sarà “il primo atto di un femminismo nuovo … l’accettazione che la donna saprà fare del proprio corpo, rifiutando la maternità come consacrazione e imparando un rapporto d’orgoglio equilibrato… verso la propria diversità sentita come ricchezza” (p. 178). Poiché “il problema che conta … non è già abolire le differenze, bensì salvarle … implica, per la donna, la spogliazione del corpo culturale costruitole dall’uomo e l’autocreazione culturale di un suo nuovo proprio corpo femminile… intero” (p. 213). Stando molto attente a questo: che sotto la brillante vernice delle concessioni moderne è in atto un nuovo tentativo di reprimere il desiderio di autonomia e identità delle giovani donne negando “l’esistenza di un universo psichico femminile in nome dell’uguaglianza dei sessi. Invece la liberazione della donna non è la liberazione dalla donna” (p. 226), non è imitazione emancipatoria del maschio, ma amore per la propria identità: questa conquista, insieme alla fine del misticismo della maternità, coinciderà anche con la fine dell’estraneamento dell’uomo dalla paternità e con un “darsi la mano nel mistero”.
Marisa Rusconi, in Scritture, scrittrici[2] ha inserito “quasi tutta l’opera di Armanda Guiducci” tra quelle che hanno “sperimentato l’avventura di spingersi in una terra di frontiera” mescolando frammenti di sé alle storie delle altre, sotto il segno di una “doppia presenza” della tensione privata e pubblica. Una tensione che Guiducci ha portato avanti confrontando e assimilando noi e le emarginate, soffocate, non riconosciute in opere come La donna non è gente, All ‘ombra di Kali , Donna e serva , ma anche lavorando criticamente in scritti come Il percorso creativo di Virginia Woolf[3]. Quanto a La mela e il serpente, le sue prime lettrici ne ricavarono una bella scossa, ma anche le ultime possono notare la forza attuale di tanti pensieri. Fu scritto negli stessi anni in cui Christa Wolf narrava il suo Kindheitsmuter[4] definito, appunto, anch’esso un “campione” di esistenza femminile nel suo difficile passaggio dall’infanzia all’adolescenza, ripercorso dalla memoria della donna adulta; ed uscì tre anni prima di Nato di donna di Adrienne Rich, di cui anticipa in modo evidente grandi temi: il rapporto tra sé e le altre, la mitologia patriarcale , il simbolismo dei sogni, l’impurità del corpo femminile che minaccia la mascolinità e che pure diventa sacro nella maternità, idea questa ancora ambiguamente radicata nella mente di donne apparentemente libere.
(Eleonora Chiti, autrice di tavole e storie a fumetti che firma “Lori”, si occupa di aggiornamento, saggistica e critica letteraria con un interesse specifico per la scrittura delle donne. Fa parte della Società Italiana delle Letterate)
[1] Pubblicata in 100 titoli. Guida ragionata al femminismo degli anni Settanta, a cura di A. Ribero e F. Vigliani, Luciana Tufani editrice, Ferrara 1998
[2] Autrici Varie, Scritture, scrittrici, Firmato donna: Almanacco, Milano, Sipiel, 1988.
[3] A. Guiducci, La donna non è gente, Milano, Rizzoli, 1977; A. Guiducci, All ‘ombra di Kali, Milano, Rizzoli, 1979; A. Guiducci, Donna e serva, Milano, Rizzoli, 1983; A. Guiducci, Il p ercorso creativo di Virginia Woolf, introduzione a Una stanza tutta per sé, Milano, Newton Compton, 1993.
[4] C. Wolf, Trama d’infanzia, e/o, Roma 1992 (prima edizione in lingua tedesca: 1976)