Evelyn Reed, Sesso contro sesso o classe contro classe? Il mito dell’inferiorità della donna,
Roma, Savelli, 1973,
traduzione di Cristiana Ambrosetti,
introduzione di Rosalba Spagnoletti, 189 p.
Titolo originale: Problems of Women’s Liberation: a Marxist Approach, New York, Pathfinder Press, 1969
Questo “classicone” è stato recensito negli anni Novanta da Eleonora Ortoleva – formatrice psico-sociale e psicopedagogica – per il libro 100 titoli, guida ragionata al femminismo degli anni Settanta, a cura di Aida Ribero e Ferdinanda Vigliani
Pubblicato in Italia nel 1973, non con il titolo originale ma con quello di uno dei saggi contenuti all’interno, il libro di Evelyn Reed, studiosa e militante del movimento operaio americano, di tendenze trozkiste, era uscito negli Stati Uniti già nel 1969. Nella V edizione del 1971 era stato arricchito di due saggi del 1970 e negli anni seguenti era stato più volte ristampato. A una edizione successiva al 1971 si rifaceva la traduzione italiana che nel nostro paese catturò immediatamente l’attenzione dei gruppi femministi, fortemente impegnati in quel periodo in un accesissimo dibattito teorico su quali fossero le radici ultime dell’oppressione femminile, quali le responsabilità storiche e attuali del sesso maschile, quali i diversi significati che alla “liberazione femminile” attribuivano gli schieramenti contrapposti all’interno del movimento.
Nel libro compaiono sette saggi, scritti dall’autrice in anni diversi, dal 1964 al 1970, e quasi tutti destinati a un uso immediato e militante: dalla pubblicazione su una rivista politicamente orientata come la Intemational Socialist Review alla lettura in pubblico in occasione di conferenze o convegni di donne o di studenti. Come già segnalava l’Introduzione di Rosalba Spagnoletti alla traduzione italiana, la raccolta ha i tratti tipici del pamphlet ed è contrassegnata da un approccio minoritario nel contesto del femminismo americano contemporaneo per i continui richiami alla ideologia del marxismo e alla sua tradizione di pensiero e di metodo.
Intento dichiarato dell’autrice è dare un contributo alla scrittura, o meglio alla riscrittura della storia delle donne che “reclamano la fine dello stato di inferiorità” e “esattamente come gli afroamericani che cercano di capire perché furono relegati in stato di servitù e come possano liberarsi rapidamente (…) vogliono sapere come e perché sono state assoggettate alle leggi maschili”(p. 25). Alle sue simili Evelyn Reed suggerisce di guardare o molto indietro nella storia dell’umanità, soffermandosi soprattutto sulle sue origini per poi proseguire fino ai giorni nostri, o molto avanti, in quel futuro socialista “scientificamente” prevedibile che farà inevitabilmente seguito al “capitalismo moribondo”.
Nei saggi le tesi di fondo sono variamente articolate, argomentate e contrapposte alla cultura e alla scienza dominanti da un lato, e alle altre posizioni teoriche interne al femminismo americano dall’altro. L’autrice ritorna molte volte sugli stessi due punti: la condizione nelle società preistoriche di piena libertà economica e sessuale delle donne e il loro enorme potere sociale che sarebbe venuto meno solo con l’avvento della proprietà privata e l’inizio del patriarcato: l’individuazione del nemico vero delle donne non nel sesso maschile pur accusato, con una severità che aumenta progressivamente, di sciovinismo e sopraffazione, ma nel capitalismo, con la sua divisione in classi della società.
A distanza di tanti anni da quel clima politico e culturale, si avverte forse più chiaramente la scelta “pedagogica” dell’autrice di ripetere e ribadire, come per ottenere che certi concetti rimangano più impressi. L’effetto stilistico è a tratti quello della litania, del formulario, della ripresa ad oltranza degli stessi motivi. Inoltre si può, ovviamente, discutere, almeno per quanto riguarda le società primitive, del rigore scientifico della ricostruzione antropologica (è corretto, ad esempio, identificare matrilinearità e matriarcato?) e del metodo, che troppo spesso non si basa sull’indagine diretta e si limita semplicemente a dedurre la realtà dalla teoria marxista, ma si deve riconoscere al libro una forza visionaria e ideale trascinante, la stessa che emana da altri “classici” del femminismo dell’epoca e di cui oggi ci sarebbe assai bisogno per integrare in una nuova ipotesi politica complessiva i tanti aspetti sparsi di consapevolezza, soddisfazione, terribile scontento, bisogno di utopia, propri della frammentata coscienza femminile dei nostri tempi. Il primo saggio della raccolta (1964) è dedicato alla Mistica della femminilità di Betty Friedan cui Evelyn Reed riconosce implicitamente il ruolo di grande iniziatrice nei primi anni Sessanta di quel processo di riflessione sulla condizione delle donne americane che avrebbe portato così lontano negli anni successivi. Della Friedan l’autrice condivide la diagnosi che investe, oltre alle strutture sociali in cui le donne sono inserite, la cultura e in particolare le scienze sociali come la sociologia, la psicologia sedicente freudiana e l’antropologia “funzionalista” alla Margaret Mead, a causa della cui influenza la maternità era diventata “una carriera che escludeva ogni altro sforzo creativo”. Non condivide invece la cura proposta dalla Friedan, convinta com’è che istruzione e lavoro siano soluzioni individuali che non possono mutare le sorti femminili complessive.
Nei saggi successivi Evelyn Reed critica direttamente la biologia e l’antropologia contemporanee e ne ribalta le tesi: non di una inferiorità biologica femminile si deve parlare e di un ruolo paterno esercitato fin dalla preistoria dal sesso maschile anche a protezione delle donne, ma “al contrario”, e diversamente da quanto sostengono Kate Millett e Shulamith Firestone, di un dominio femminile nelle società primitive matriarcali, le quali non identificavano la paternità biologica con il ruolo paterno, in genere rivestito dal fratello della madre, quindi da un maschio appartenente al suo clan, e, proprio grazie alle donne, sarebbero evolute da una cultura basata sulla caccia e sulla raccolta dei frutti spontanei della terra a una cultura della coltivazione e dell’allevamento, retta da regole di pacifica collaborazione. Il riferimento ai classici del marxismo, primo fra tutti L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato di Engels (1884) e agli antropologi ottocenteschi prediletti dai marxisti, Morgan e Bachofen in primo luogo, è molto esplicito e ricorre spesso per spiegare la subordinazione delle donne cui il capitalismo impone attualmente uno sfruttamento triplo, in quanto lavoratrici, mogli/madri, e consumatrici.
Le donne, secondo Evelyn Reed, non sono una “casta” né una “classe” ma “il sesso oppresso” che nella inevitabile lotta di classe ha come naturali alleati i lavoratori neri e bianchi e per ora, prima cioè della rivoluzione socialista, deve limitarsi a rivendicare diritti fondamentali come la parità (nel lavoro, nell’istruzione, nelle retribuzioni) e la libera determinazione della propria maternità (con la richiesta della legalizzazione dell’aborto). Manca, e qui sta uno dei limiti più gravi del libro, un reale interesse ad approfondire l’analisi della cultura contemporanea, che si direbbe venga considerata di gran lunga meno importante del pensiero del secolo scorso, e, soprattutto, a soffermarsi sui modi di sentire, desiderare, essere, delle donne qui e ora, e sulle nuove risorse di creatività esistenziale che potrebbero mettere in campo fin da subito. Le donne di cui parla l’autrice sono donne in guerra con l’organizzazione del lavoro e le istituzioni che, a differenza delle femministe ottocentesche, non accettano più neppure i valori borghesi e terribilmente costrittivi della famiglia e del matrimonio. Ma anziché tentare di interpretare più in profondità queste tendenze contemporanee, Evelyn Reed preferisce volgere con rimpianto lo sguardo verso il più remoto passato e contrapporre il modello delle comunità primitive, in cui le donne avrebbero goduto di una perfetta uguaglianza e di una completa libertà nelle scelte d’amore, alla società capitalistica che cerca di imporre alle donne i suoi standard di bellezza per indurle al consumo dei cosmetici e all’ossequio alle mode e spingerle alla competizione per la conquista del maschio. Quanto alle femministe contemporanee, “i nomi pittoreschi, gli atteggiamenti aggressivi”, il “crea re scandalo” vanno bene per opporsi alla “supremazia e allo sciovinismo maschile e sfidare apertamente il mito della superiorità dei maschi” (p. 159) ma fare sensazione non è sufficiente e, soprattutto, secondo l’autrice è bene ricordare che la sostituzione dell’ostilità fra i sessi alla lotta di classe da parte di donne troppo zelanti sarebbe una pericolosa deviazione dalla retta via della liberazione.
(Eleonora Ortoleva)