Pubblicato nel 1971, il saggio si colloca in un contesto storico in cui il movimento femminista italiano incomincia a prendere consistenza e le diverse formazioni pongono al centro del loro dibattito il tema della sessualità femminile. Tema che però non ha ancora, all’inizio degli anni Settanta, focalizzato come suo interesse principale il problema dell’aborto, rimasto sino a quel momento inespresso nella vita delle donne come se non avesse dignità politica. Proprio per questo il libro di Elvira Banotti ebbe il merito di mettere in luce il nodo doloroso della sessualità femminile: l’aborto.
La sua individuazione come tema politico, sottratto alla colpevolizzazione personale e alla privatezza, sarebbe emerso con evidenza solo due anni dopo, quando nei gruppi di autocoscienza, ormai diffusi, questo vissuto si impose con la forza dell’esperienza. Questa affondava le sue radici nella angosciosa realtà femminile dei decenni precedenti connotata dalla clandestinità, dal rischio penale e dal trauma degli aborti, comunque venissero procurati: presso un costoso studio medico per lebenestanti, presso la cucina di una mammana per le povere. Anni in cui non erano tuttavia mancate appassionate voci di richiamo a favore della contraccezione, dell’educazione sessuale e della liberalizzazione dell’aborto. Se ne erano fatto carico piccole organizzazioni private, come l’AIED (Associazione Italiana per l’Educazione Demografica) che operava tramite suoi consultori, fuori della legalità, con l’intento di diffondere la prevenzione, e spiccate ma isolate personalità come Maria Luisa Zardini De Marchi.
Ciò che era mancato a queste associazioni era un contesto sociale e politico capace di schierarsi su un fronte allora considerato tanto scomodo, e al contempo era mancata una collocazione del problema in ambito più squisitamente politico. Con la nascita del femminismo queste condizioni si rivelarono mature e il salto di qualità ebbe finalmente luogo. Non a caso il tema dell’aborto riuscì a unificare i vari raggruppamenti, seppure con sfaccettature molto diverse nelle motivazioni di fondo: tutte avevano però l’obiettivo della legalizzazione e della gratuità. Pur mantenendo posizioni eterogenee, tutte avvertivano l’assoluta esigenza di portare il discorso su un piano politico al fine di mutare la legge in vigore. Una legge che risaliva al codice Rocco del 1930, nella quale l’interruzione di gravidanza veniva definita un crimine contro la stirpe e veniva punita con la reclusione da uno a quattro anni per chi procurava l’aborto, da uno a cinque per chi vi si sottoponeva consenziente.
La sfida femminile si propone di affrontare proprio la problematica del divieto d’aborto attraverso un’analisi storica e sociologica che va alle radici della questione. Esplicita sin dalle prime righe la posizione dell’autrice: per lei l’aborto è un atto di libertà, un diritto inalienabile della donna che deve essere libera di poter scegliere, momento per momento, ciò che attraverso di lei si compie. Ma non solo. È anche un evento biologico assolutamente naturale, un “rigetto volontario” che la donna “ricopia dalla natura” nel momento in cui non riesce a vivere serenamente la maternità. Dunque, se il fine dell’aborto terapeutico è quello di eliminare feti deformi e di salvare la vita della madre, l’aborto volontario diventa necessario per salvaguardare l’equilibrio psicosomatico della donna impedendo la nascita di figli indesiderati.
Per l’autrice l’aborto viene ad essere l’unico modo per riappropriarsi della maternità, in termini di conoscenza e controllo della propria realtà organica, senza doverla subire come un evento alienante:
l’aborto (a dispetto di tutte le diffamazioni tradizionali) si presenta come un rifiuto ad adattarsi a schemi contraffatti e precostituiti e rappresenta una frizione tra due energie della persona: la spinta intenzionale e la qualità biologica. (p. 26)
Questa concezione dell’aborto, speculare alla maternità, non venne condivisa da Rivolta Femminile, il gruppo di cui Elvira Banotti faceva inizialmente parte. Nel saggio Sessualità femminile e aborto del 1971, Rivolta femminile dà una diversa interpretazione. Non solo non considera l’interruzione di gravidanza un atto di libertà, ma parla invece di un atto di necessità, a cui la donna doveva sottostare per l’imposizione di una sessualità maschile genitale e procreativa. Nel giudizio di Rivolta l’aborto assunse i contorni di un fenomeno di morte, di fronte al quale la donna si trovava, ancora una volta, sola.
Il libro può essere suddiviso in due parti. La prima parte raccoglie una serie di interviste attraverso cui l’autrice cerca di rendere esplicite “le ragioni di una scelta”. Il metodo di ricerca adottato è quello della raccolta di biografie, attraverso il racconto confidenziale di donne a cui è stato garantito l’anonimato. I racconti presentano uno spaccato del vissuto femminile mettendo in luce i problemi, le angosce, l’ansia e tutti i pericoli legati all’aborto. Forte era la sensazione di libertà provata da queste donne subito dopo l’interruzione di gravidanza, “cessare di sentirsi solo corpo è una sensazione profonda di appartenenza che la donna vive”, sono le parole di una delle intervistate.
Da questa ricerca sono emersi con una chiarezza che non lascia dubbi tre punti:
- la donna intende creare le condizioni adatte a un consapevole esercizio della sua autonomia;
- la donna intende limitare la funzione riproduttiva per renderla più soggettiva e piacevole;
- la donna ritiene che il proprio corpo possa venir plasmato secondo personali esigenze, è cioè convinta di non aver a che fare con qualcosa di assolutamente immutabile e predestinato, ma con un organismo capace di variazioni. (p. 10)
La seconda sezione del saggio, dal titolo Come nasce il divieto d ‘aborto, tenta di svelare, attraverso un’indagine storica, gli avvenimenti su cui si sono formate determinate consuetudini. L’autrice sostiene che “l’avvento del patriarcato è legato alla dialettica dei rapporti che si sviluppano tra maggioranze e minoranze”, e in questa seconda parte fornisce gli elementi che suffragano questa affermazione. La presa di coscienza delle donne deve far sì che queste difendano i propri diritti contro il procedere arbitrario delle leggi patriarcali, anziché eluderle clandestinamente. La ricostruzione storica è dunque necessaria per capire come si sia venuta a creare l’ideologia di una presunta inferiorità, psichica e fisica, del sesso femminile e per dimostrare come lo status sociale della donna sia stato determinato culturalmente da precise situazioni di vita. Precetti, norme di determinati momenti storici, che sono stati in seguito istituzionalizzati e tramandati nella memoria collettiva, ma che risultano inadatti ad una mutata realtà. Così si scopre che le radici dell’aborto “amorale” risalgono ad un periodo storico in cui, a causa di una netta inferiorità numerica della donna, l’uomo decise di difendere la sua “proprietà” punendo l’adulterio, la non verginità e l’aborto. Un sistema di valori che non ha tenuto conto del prezzo che la donna ha dovuto pagare, in termini di salute e di identità, nella procreazione e che, secondo l’autrice, non può più essere accettato.
La stessa dottrina cristiana si delineò secondo l’esigenza di un ordine sociale, che rischiava di essere compromesso proprio a causa di una “penuria” di donne. Non potendo offrire una soluzione per ogni uomo attraverso la distribuzione regolata delle donne, si sviluppò una complessa ideologia della negazione sessuale: il matrimonio si trasformò in un legame sacro, l’adulterio fu considerato un reato grave, l’unione coniugale ebbe come unico fine la procreazione e la prevenzione delle nascite fu vietata. Ed “è proprio nel cristianesimo che si organizza e teorizza la più grande discriminazione e repressione femminile, che trasformerà la donna in strumento della specie”(p. 293).
Il libro conclude con un’appendice che raggruppa una ricognizione delle legislazioni sull’aborto nei vari paesi all’epoca, uno studio sulle ripercussioni psichiche dell’interruzione di gravidanza e, infine, un’esperienza di riforma nella quale viene presentata l’impostazione che il professor Frank Novak, direttore del Dipartimento di Ostetricia e di Ginecologia e titolare della cattedra omonima all’università di Lubiana, diede al problema finora trattato. Il professore spostò la questione dell’aborto dalla presunta difesa della vita dell’embrione alla difesa della salute delle donne. Infatti, in un’intervista avvenuta a Milano il 20 febbraio 1968, sostenne che tutto dipende dalla stima che si ha della donna e che, l’aborto, è proprio un problema di stima. “Poiché la donna — disse — ha questa grande funzione di procreare, la società deve prendersi cura con tutta serietà della sua salute. Non solo della salute fisica ma anche di quella psichica. La maternità non è un fenomeno puramente biologico ma è essenzialmente un fenomeno psicologico della donna”.
La sfida femminile consiste dunque nel superare la posizione di sottomissione del genere femminile, lottando contro istituzioni, leggi, consuetudini e strutture sociali funzionali all’etica patriarcale. Per vincere questa sfida la donna deve innanzi tutto recuperare il controllo del proprio corpo, delle proprie funzioni di persona, “essa dovrà assumere in prima persona le proprie esigenze riscoprendo una nuova socialità in cui la vita stessa possa essere veramente mediata e realizzata.” (p. 432).
Scheda critica di Lucia Preziosi
Lucia Preziosi – Laureata in pedagogia con una tesi su Luce Irigaray
Elvira Banotti, La sfida femminile. Maternità e aborto
Bari, De Donato, 1971,