In Sputiamo su Hegel, Scritti di Rivolta Femminile, Milano, 1974, pp. 11/18
Noi cerchiamo l’autenticità del gesto di rivolta e non lo sacrificheremo né all’organizzazione né al proselitismo. Comunichiamo solo con donne.
Con la scelta del separatismo si chiude il Manifesto di Rivolta Femminile, scritto nel 1970 da Carla Lonzi, che inaugura non solo la formazione dei gruppi a nome Rivolta Femminile in varie città, ma l’originalità del femminismo italiano. È oramai talmente ovvio far coincidere il separatismo, i piccoli gruppi, l’autocoscienza con il movimento delle donne negli anni Settanta, che potrà apparire superfluo, o ridondante, ricordare questi aspetti per Rivolta Femminile.
Al contrario, le frasi qui ricordate furono allora dirompenti, e non mancarono di suscitare scalpore, perplessità e fraintendimenti anche da parte di altri gruppi di donne che in quello stesso periodo contribuirono all’inizio del femminismo. Questo ha inciso non poco nella autorappresentazione collettiva del pensiero e della pratica femminista, al punto da creare un paradosso. A fronte della grande influenza, espansione e profondità dell’opera di Rivolta Femminile e di Carla Lonzi in particolare — tanto da poter essere confusa con i caratteri comuni a tutto il femminismo — nella realtà storica degli anni Settanta non si trovano riscontri di riconoscimento né sotto il profilo storico-teorico, né genealogico, né si trovano espliciti richiami ai testi e alle vicende di Rivolta.
La principale fonte di autorità che dobbiamo a Lonzi e Rivolta Femminile è l’autocoscienza, ma numerosi altri aspetti di questo pensiero sono stati altrettanto fecondi per l’intero patrimonio femminista, e ancora costituiscono vene preziose per il pensiero e la pratica delle donne. Diversamente dalla maggior parte degli altri gruppi, Rivolta Femminile non modificò la pratica in conseguenza alle mutate circostanze o alle difficoltà che si presentavano al suo interno. Piuttosto l’affinò e arricchì, dilatandone gli ambiti e le forme. La ragione di questa conferma non è un malinteso purismo, né un attaccamento inibente alle proprie origini. Conta piuttosto la consapevolezza della radicalità dell’atto inaugurale, e della necessità di non comprometterla, con successivi accomodamenti, a fronte delle resistenze interne ed esterne. Da subito, come Rivolta Femminile realizza il proprio femminismo, questo appare una scelta estrema, dato l’intreccio che stabilisce tra presa di coscienza e vita.
“Il personale è politico”, per Lonzi non è una formula felice che sintetizza l’autocoscienza, è piuttosto una forma di vita. Provare a districare pensiero e vissuto nei suoi testi comporterebbe, alla lettera, una lettura insensata.
Il nostro Manifesto contiene le frasi più significative che l’idea generale del femminismo ci aveva portato alla coscienza (…) Il bisogno di esprimerci è stato da noi accolto come sinonimo di liberazione”. (Premessa, p. 8)
La presa di parola è atto dirompente, inizialmente basta “esprimersi”. Ma la scelta della parola scritta e il linguaggio stesso del Manifesto, segnalano una distanza dalla modalità, che diverrà prevalente, del “trovare le parole per dirlo”, del racconto di storie personali. Per Rivolta femminile il soggetto Femminile avviene nella significazione di sé, del proprio “senso dell’esistenza” e del mondo. Dunque la presa di parola, il linguaggio “è già politica”.
La prima esigenza è di “pulire lo spazio” di tutte le ideologie e sistemi di pensiero che hanno il credito femminile. Nella cultura, più che nelle condizioni materiali, è il vero ostacolo alla libertà femminile.
Non vogliamo d’ora in poi tra noi e il mondo nessuno schermo. (p. 14)
Grazie innanzitutto al linguaggio conciso e folgorante il M anifesto risulta un testo tipicamente demistificatorio, di confutazione delle rappresentazioni, colte e comuni, sulla femminilità e i rapporti tra i sessi. In realtà non è affatto riducibile a mera critica, a una forma di pensiero negativo. Come scriverà Lonzi, al termine della sua vita[1], “il dissenso senza fine”, i gesti di opposizione e negazione femminile, sono un modo “per salvare l’oggetto dei loro affetti”, una dimostrazione insomma rivolta all’uomo, come interlocutore privilegiato, di cui la civiltà patriarcale si serve.
Ho ricordato innanzitutto la pratica che il Manifesto annuncia, per sottolineare come anche in questo primo testo, pur così segnato dall’intenzione di “smaltire” ogni aggancio al patriarcato (società, cultura, politica) è presente un modo autonomo di pensare e agire la realtà, per modificarla, a partire da sé.
La donna come soggetto non rifiuta l’uomo come soggetto, ma lo rifiuta come assoluto. Nella vita sociale lo rifiuta come ruolo autoritario. (p. 12)
Dopo questo atto di coscienza l’uomo sarà distinto dalla donna e dovrà ascoltare da lei tutto ciò che la concerne. (p. 18)
Non salterà il mondo se l’uomo non avrà più l’equilibrio psicologico basato sulla nostra sottomissione. (p. 18)
Potremmo dire che è quanto in questi anni è avvenuto, in dimensioni sorprendentemente vaste e radicali; forte è però il timore, in molte donne prima di tutto, che con l’equilibrio maschile salti anche il mondo. Il testo è scandito alternando e distaccando alcuni nuclei tematici a secchi enunciati. Lo stesso ordine in cui sono posti corrisponde alla scelta di non affidarne la forza all’argomentazione analitica, alla persuasione razionale, ma piuttosto alla parola significante, alla sua capacità di restare prossima all’autrice e alla (propria) esperienza femminile. Il rifiuto dell’emancipazione e dell’uguaglianza con l’uomo apre il Manifesto.
Identificare la donna all’uomo significa annullare l’ultima via della liberazione. Liberarsi per la donna non vuol dire accettare la stessa vita dell’uomo, perché è invivibile, ma esprimere il proprio senso dell’esistenza. (p. 11)
“Il sapore dell’inganno” è stato sperimentato “da quelle di noi che, godendo nella cultura maschile, prima del femminismo, di qualche risonanza, sono state riportate bruscamente alla coscienza della loro subordinazione”[2]. L’esistenza da emancipate non offre libertà alle donne, ma una forma aggiornata di complementarietà agli uomini, tramite la condivisione della loro organizzazione di vita. La necessità di porre in modo drastico l’alternativa tra libertà ed emancipazione, scaturisce dalla differenza sessuale. Per Lonzi questo coinvolgerà l’intera vita: porrà termine all’attività di critica d’arte e rifiuterà qualsiasi altro ruolo sociale, pubblico, dedicandosi interamente alla scrittura, a Rivolta Femminile, alle relazioni. In forme più contraddittorie — l’abbiamo chiamata estraneità — questo porsi su un altro piano da quello della cittadinanza è un tratto fondativo del femminismo.
Se la condizione di emancipata aliena la donna da sé, qualcosa mancava alla pretesa di stare nel mondo in un modo appropriato alla sua differenza: la relazione con l’altra donna. “Solo una donna può dirti il mondo ti appartiene” scrive Carla Lonzi nel suo diario. Nella relazione tra donne la soggettività singolare può trovare misura, principio di realtà. Questo consente di riconoscersi differenti le une dalle altre, di non appiattirsi né nella identità di genere, né in una condizione sociale da tutte condivisa.
Né Lonzi, né Rivolta intendono proporre modelli di vita da adottare. Non si tratta di confutare ideologicamente le concrete scelte di vita, e ancor meno di sottovalutare le motivazioni e perfino l’imperativo sociale all’emancipazione. Ma se il problema è “riconoscersi come esseri umani completi, non più bisognosi di approvazione da parte dell’uomo” le donne, emancipate o non, incontrano il vero ostacolo in una civiltà che non prevede questa possibilità.
Tanto la nostra lotta quanto la nostra libertà si fondano sulla coscienza che, non riconoscendosi nella cultura maschile, la donna le toglie l’illusione dell’universalità.
L’uomo ha sempre parlato a nome del genere umano, ma metà della popolazione terrestre lo accusa ora di aver sublimato una mutilazione. (p. 17)
Maternità, sessualità, lavoro domestico e sociale sono puntualmente richiamati, come aspetti decisivi della condizione femminile contemporanea. Svelarne l’inganno è “rivendicare l’evidenza”. Merita richiamare i punti in cui il testo mostra l’altro senso di questa realtà, quello che la differenza femminile apre.
In una libertà che si sente di affrontare la donna libera anche il figlio e il figlio è l’umanità. (p. 13)
Riesaminiamo gli apporti creativi della donna alla comunità e sfatiamo il mito della sua laboriosità sussidiaria.
Dare alto valore ai momenti “improduttivi” è un’estensione di vita che porta la donna.
Detestiamo i meccanismi della competitività e il ricatto che viene esercitato nel mondo dalla egemonia dell’efficienza. Noi vogliamo mettere la nostra capacità lavorativa a disposizione di una società che ne sia immunizzata. (p. 15)
Oltre ogni logica rivendicativa, e ogni contrapposizione tra riforme progressiste e tradizione conservatrice, è individuato l’apporto che la differenza femminile può dare all’organizzazione di vita, se non è ricondotta alla misura sociale esistente. L’indicazione più preziosa è sulla libertà femminile che tramite il figlio, maschio, modifica la libertà umana, di uomini e donne. La relazione che più di ogni altra è stata radice storica e simbolica della libertà maschile (per come gli uomini ne hanno giovato, negandola) e del destino biologico e sociale femminile, si rovescia di segno. Il rapporto della donna con il giovane, il figlio del Padre, è sviluppato in Sputiamo su Hegel, con significativi riferimenti ai movimenti degli anni Sessanta e Settanta.
Percorre tutto il Manifesto l’intento di mostrare quale marchio di mutilazione la storia e civiltà umana portino in sé, avendo negato alle donne la capacità di trascendere l’immediatezza della vita, del corpo, su un principio di potere, ovvero traendo conferma dal fatto che le donne non hanno potere.
Noi consideriamo responsabili i sistematici del pensiero: essi hanno mantenuto il principio della donna come essere aggiuntivo per la riproduzione della umanità, legarne con la divinità o soglia del mondo animale; sfera privata e pietas. Hanno giustificato nella metafisica ciò che era ingiusto e atroce nella vita della donna.
Sputiamo su Hegel. (p. 17)
La celebre invettiva diverrà poi il titolo del testo più noto di Carla Lonzi, del quale il Manifesto anticipa i punti salienti.
Hegel è il primo bersaglio perché ha nominato la differenza sessuale, nella logica binaria del maschile e il femminile, che sono in realtà l’esito — il fatto — del dominio di un sesso sull’altro. Ha insomma dato dignità teorica a un dato, la subordinazione femminile, affermando che la differenza femminile non può (non deve?) progredire all’universale, e dunque è estranea, nemica all’arte, la scienza, la politica. Ma né del fatto, né dell’estraneità che ne consegue Hegel dà ragione. Non spiega cioè “l’origine umana dell’oppressione della donna”. Su questo misconoscimento si regge la dialettica servo-padrone, la teoria hegeliana della storia.
Nel M anifesto è presente la critica sia a Hegel che alla teoria marxiana della lotta di classe e della rivoluzione. In realtà è quest’ultima a rappresentare il fulcro, perché a essa va il credito femminile. Non dimentichiamo quanto fossero diffuse negli anni Settanta le analisi dei rapporti tra i sessi di ascendenza marxista; dalle quali Carla Lonzi ritiene essenziale prendere distanza. Per ragioni politiche quanto teoriche. Scrive nel Mito della proposta culturale[3]:
Perché gli attacchi diretti vengono tenuti in sospeso finché non si sia trovato modo di assestarli tra due citazioni di Marx? Perché avvicinare gli uomini come fossero dei bambini a cui le proprie verità bisogna porgerle adottando il linguaggio dei loro libri di lettura? Perché questa serietà, questo accoramento? Per farli capire, cioè per non perdere l’aggancio culturale.
Allora qual è la pratica che fa deperire la Politica (e le maiuscole in genere)?
Nel ’70 le è già chiaro cosa deve deperire: la politica come lotta per il potere.
La dialettica servo-padrone è una regolazione di conti tra collettivi di uomini: essa non prevede la liberazione della donna, il grande oppresso della civiltà patriarcale.
La lotta di classe, come teoria rivoluzionaria della dialettica servo-padrone, ugualmente esclude la donna. Noi rimettiamo in discussione il socialismo e la dittatura del proletariato. (p. 17)
Ma è opportuno, al riguardo, citare un brano esteso da Sputiamo su Hegel
In Hegel coesistono queste due posizioni: l’una che vede il destino della donna collegato al principio della femminilità, l’altra che scopre nel servo non più un principio immutabile, un’essenza, ma la condizione umana che realizza nella storia la massima evangelica “gli ultimi saranno i primi”. Se Hegel avesse riconosciuto l’origine umana dell’oppressione della donna, come ha riconosciuto quella dell’oppressione del servo, avrebbe dovuto applicare anche al suo caso la dialettica servo-padrone. E in questo avrebbe trovato un serio ostacolo: infatti se il metodo rivoluzionario può cogliere i passaggi della dinamica sociale, non c’è dubbio che la liberazione della donna non può rientrare negli stessi schemi: sul piano donna-uomo non esiste una soluzione che elimini il femminile altro, quindi si vanifica il traguardo della presa del potere. (p. 27)
Il potere non è il traguardo, non solo nella forma radicale, che gli è però intrinseca, del conflitto — quella per cui il potere operaio annulla quello del capitale, e il rapporto sociale che incarna — ma anche in quella democratico-riformista della distribuzione e partecipazione al potere. Possibile per le classi sfruttate — ma permane l’alienazione e disumanizzazione del rapporto sociale, costruito sulla dialettica superiore-inferiore — non per le donne.
Il potere è infatti virile, perché dell’uomo, della sua sessualità e principio di piacere è il bisogno di supremazia, la “patologia possessiva” che lo porta ad appropriarsi — obiettivando — cose, opere, esseri. Nei rapporti umani, sociali, il potere agisce “sia sul piano dell’uguaglianza che della differenza”, definendo l’altro essere umano, o gruppo, sulla base del proprio: chi ha potere definisce sé, l’altro/ a, il rapporto. Ad esempio:
Chi ha il potere afferma: ’ Fa parte dell’erotismo amare un essere inferiore’.
Mantenere lo status quo è dunque un suo atto d’amore. (p. 15)
…e forme ragionate di potere (teologico, morale, filosofico, politico) hanno co_stretto l’umanità a una condizione inautentica, oppressa, consenziente. (corsivo mio) (p. 14)
E in Sputiamo su Hegel:
…il sorgere della proprietà privata ha espresso uno squilibrio tra i sessi come bisogno di potere di ciascun uomo su ciascuna donna, intanto che si definivano i rapporti di potere tra gli uomini. ( …) Al materialismo storico sfugge la chiave emozionale che ha determinato il passaggio alla proprietà privata. È lì che vogliamo risalire perché venga riconosciuto l’archetipo della proprietà, il primo oggetto concepito dall’uomo: l’oggetto sessuale. La donna rimuovendo dall’inconscio dell’uomo la sua prima preda, sblocca i nodi originari della patologia possessiva. (p.22)
Negli anni in cui il femminismo si espande, il piccolo gruppo e l’autocoscienza sono le forme comuni di uno straordinario processo collettivo. Ma la coscienza che prevale è quella dell’oppressione, intesa non, come è per Lonzi, quale mancanza di un senso libero dell’essere donna, ma come condizione sociale. Diviene ambiguo o si perde il partire da sé — frainteso con l’intimismo ipersoggettivo — come legame con l’esperienza; per molte infatti interrogarla vorrebbe dire vedere non chi o cosa impedisce loro di incidere sulla realtà e modificarla, ma la difficoltà a fare proprio il potere come significante, ovvero quel principio virile di piacere, che nella civiltà patriarcale si è costituito come principio di realtà, di ordine simbolico e sociale.
Della lotta per l’aborto legale, con la quale il femminismo diviene movimento di massa, Rivolta Femminile coglie innanzitutto il reintrodursi delle forme tradizionali della politica. È tra i pochi gruppi che prende da subito distanza. Lo stesso avviene per le pratiche, che Lonzi chiama “dell’interpretazione”, che ricorrono cioè agli strumenti teorici per convertirli al significarsi della differenza sessuale. Nonostante la durata e fecondità che il femminismo ha dimostrato, grazie anche alla sua capacità di reinventarsi, le ragioni che hanno spinto Lonzi e Rivolta femminile a non condividere l’abbandono della autocoscienza a distanza di anni non paiono superate. Sul punto essenziale che qui si è evidenziato, e che oggi più di ieri risulta centrale, quello del potere, e del nesso tra sessualità (maschile) e politica, appare quanto mai opportuno reinterrogarsi su quelle origini.
Scheda critica di Maria Luisa Boccia
Maria Luisa Boccia — Docente di storia della filosofia politica, autrice de L’io in rivolta. Vissuto e pensiero di Carla Lonzi, La Tartaruga 1980.
[1] Carla Lonzi, Armande sono io!, Milano, Scritti di Rivolta Femminile, 1992.
[2] Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi, Milano, Scritti di Rivolta Femminile, 1974
[3] La presenza dell’uomo nel femminismo, Milano, Scritti di Rivolta femminile, 1978.