
Eva Figes,
Il posto della donna nella società degli uomini
Milano, Feltrinelli, 1970, 245 p.
Ed. or., Patriarchal attitudes. Women in society, London, Faber & Faber, 1970
Quando i primi echi del femminismo americano raggiunsero l’Europa, come primo impatto essi vennero a rompere l’isolamento sofferto da parecchie intellettuali europee: tra queste Eva Figes, battagliera precorritrice di un movimento che, dai primi anni Settanta in avanti, avrebbe informato di sé, in modo diffuso e fortemente innovativo, vasti strati della società e dell’opinione pubblica.
Se, in relazione alla differenza tra i sessi, la determinante naturale mancava di prove convincenti, l’effetto degli influssi ambientali e dell’apprendimento divenne subito evidente alla testarda perspicacia di studiose come la Figes: sapienti di storia, filosofia, antropologia e teorie evolutive, sociologia ecc., esse cominciarono a scardinare uno ad uno i paletti posti via via nei secoli a circoscrivere la presenza femminile al l’unico ambito che le era consentito, vale a dire quello riproduttivo. Questo condizionamento sociale divenne quindi, fin dall’inizio, il terreno privilegiato di studi e rivendicazioni appassionate, tesi a rivelare quanto le donne fossero da sempre state soggette al dispotismo dell’approvazione sociale in un mondo di regole ed aspettative costruite loro addosso, artificiosamente, dal predominio maschile teso alla vanitosa conferma di una propria pretesa superiorità. Donne costrette a diventare di volta in volta angelicate o sataniche, compiacenti o pericolosamente ribelli: fin dai tempi di quella perfida Lilith che, secondo la tradizione apocrifa ebraica, non accettò di sottostare ad Adamo e, volando via nel primo sabba infernale che la tradizione ricordi, venne successivamente sostituita dalla più mite Eva.
Nella sua ricostruzione della storia femminile — piatta e ripetitiva quanto ogni altra storia di schiavitù — Figes parte quindi da lontano: utilizzando vari studi antropologici, fa risalire il dominio dell’uomo sulla donna alla scoperta del collegamento fisico tra atto genitale e nascita dei figli. Questi, rappresentando la continuità paterna in una sorta di immortalità continuamente rinnovata (sempre, però, per discendenza maschile), giustificheranno il possesso della terra e dei beni che verranno loro destinati alla morte del padre. Requisito indispensabile diviene subito, però, la certezza assoluta della paternità, da ottenere attraverso il controllo fisico, mentale e psichico della donna. Margaret Mead testimonia, a questo riguardo, come gli stessi riti di iniziazione praticati in molte tribù da lei visitate fossero severamente proibiti alle donne: quasi che la sacralità della maternità avesse bisogno di un contraltare altrettanto sacro su cui celebrare la forza ed il prestigio maschili.
Nella nostra civiltà quest’atteggiamento, sostiene Figes, si nasconde dietro la maschera di un Dio-maschio, che pone sulle spalle della fragile Eva la responsabilità della caduta (ovvero del peccato, inteso per lunghissimo tempo in senso sessuale), con tutto ciò che ne consegue. E la colpa di Eva consentirà poi all’uomo superiorità e disprezzo persino nei confronti di quello stesso atto sessuale al quale la presenza conturbante della donna, seducendolo, lo conduce istintivamente. La sessualità — vero tallone d’Achille dell’uomo e fonte di quella generalizzata paura della castrazione che ininterrottamente lo accompagnerà a livello inconscio, corredata com’è sempre stata dal terrore dell’indebolimento fisico e delle malattie veneree — sarà quindi accompagnata da tabù religiosi sempre più raffinati. Incanalata sui soli binari consentiti della procreazione — sebbene con le numerose scappatoie offerte dalla pratica diffusa della prostituzione (di nuovo, quindi, la femmina lussuriosa da contrapporre alla purezza della donna-madre) — essa sarà poi svalutata in favore del celibato più stretto secondo l’invito fatto dall’apostolo Paolo ai primi cristiani. Successivamente, rileva l’autrice, Agostino riconosce sì che “nella sua mente e nella sua intelligenza razionale la donna è uguale all’uomo, ma nel sesso è a lui fisicamente soggetta, così come i nostri impulsi naturali devono essere assoggettati alla facoltà raziocinante della mente affinché le azioni a cui essi conducono siano ispirate ai principi dell’onesta condotta” (p. 69).
Nasce di qui la contrapposizione originaria tra razionalità maschile e irrazionalità, sensualità, addirittura animalità femminile: connotati, questi, che le donne-streghe possono poi usare per compiere tutto il male presente nel consesso umano. La salvezza passerà, quindi, nel corso dei secoli e a più riprese, attraverso la persecuzione delle streghe e degli uomini loro sodali, tutti accomunati nell’accusa di orge, perversioni sessuali e accoppiamenti satanici (a conferma dell’ossessione sessuale allora imperante ed assai spesso usata anche per coprire qualche tentativo di ribellione all’ordine costituito altrimenti indomabile …).
Con puntualità ironica Figes si sofferma poi in particolar modo sulle figure maschili più rappresentative dei secoli a noi più vicini: e attraverso la sua analisi scopriamo che il pensiero occidentale fonda i suoi presupposti sulla rigida distinzione dei ruoli sessuali, non mancando di ribadire con costante pertinacia l’inferiorità femminile in ogni campo. Con sorpresa vediamo un veemente Jean Jacques Rousseau — pensatore di riferimento della Rivoluzione francese con il suo Contratto sociale e padre riconosciuto delle future democrazie occidentali — ribadire nell’ Emile la sua solidarietà all’uomo che “confinerà la donna alle incombenze del sesso femminile, lasciandola nella profonda ignoranza di qualsiasi altra cosa” (p. 122). Vista l’importanza del personaggio, piace poi alla Figes sottolineare vistose incongruenze nel suo pensiero: ed è davvero curioso rilevare come un simile pensatore politico riuscisse a conciliare la frase seguente, tratta dal Contratto sociale: “Rinunciare alla propria libertà significa rinunciare alla qualità di uomo, ai diritti e ai doveri dell’umanità”, con quest’altra, tratta invece d all’ Emile: “Devono essere allenate (le donne) fin dal principio a portare il giogo, a padroneggiare i propri capricci, a sottomettersi alla volontà altrui…” (p. 127). A meno che, insinua l’autrice, egli considerasse la libertà (e magari la stessa umanità) faccenda di stretta competenza maschile!
Curiosamente, però, l’inferiorità intellettuale concordemente attribuita alla donna si coniugherà sempre, nel corso della storia pensata ed attuata dagli uomini, con una sua indiscussa supremazia morale e più raffinata pienezza di sentimenti. Così, al pari di Rousseau ed insieme a molti altri intellettuali, anche Darwin vuole la donna inferiore e al tempo stesso moralmente migliore, trascurando la connessione logica di ciò e rimarcando però puntualmente come alcune caratteristiche femminili positive si apparentino in realtà con quelle delle razze più primitive. Tra queste comprende anche le facoltà intuitive e la tenera cura materna per la prole, anche se poi il naturalista prende il sopravvento sull’uomo e giunge a denunciare la diffusione dell’antropofagia delle donne polinesiane nei confronti dei propri figli.
Tra dotte misurazioni di cervelli, prensilità di piedi e così via — che assecondano l’ossessione scientifica legata, in quell’epoca, alla teoria evolutiva proiettata in direzione etica — si leva solitaria la voce profetica di John Stuart Mili, che sostiene invece la necessità dell’emancipazione femminile proprio attraverso la disamina dei metodi applicati alle scienze morali in vista del fine ultimo dell’umanità: quello, cioè, di un’esistenza esente quanto è possibile da dolori e ricca quanto è possibile di piaceri.
La filosofia tedesca dell’Ottocento — ovvia erede del clima letterario, artistico e filosofico precedente — evidenzia anch’essa costantemente il principio, affermato nella tradizione e nella prassi, della sottomissione femminile quale fondamento della società. E se Fichte afferma, nei suoi Fondamenti del diritto naturale, che una sottomissione parziale sarebbe umiliante per la donna e che solo quella totale (la rinuncia, cioè, non solo a tutti i diritti civili ma anche alla sua stessa personalità) le fornirebbe una dimensione morale quanto mai gratificante, il suo allievo Hegel non gli è da meno. Secondo lui la donna manca di Volontà, che è il vero motore della civiltà, non obbedisce agli imperativi dell’universalità, le sue inclinazioni ed opinioni sono del tutto accidentali: il suo connotato è, quindi, sostanzialmente la passività. Schopenhauer si accoda con entusiasmo ai maestri e nel suo saggio Sulle donne ribadisce con sicurezza che la donna “è sotto ogni aspetto ritardata, carente di raziocinio e di autentica moralità … una via di mezzo tra il bambino e l’uomo, il quale ultimo è il solo vero essere umano” (p. 157). La misoginia di Schopenhauer sboccerà poi in aperto disgusto per la sessualità, destinata a perpetuare la specie umana proprio a causa della donna “fatta, in ultima analisi, esclusivamente per questo”.
L’arrivo alla separazione poi operata da Nietzsche tra sessualità ed emotività diventa, secondo Figes, logica conseguenza dei principi introiettati attraverso il pensiero precedente: non l’atto sessuale opprime il filosofo (anzi, la donna è da lui felicemente vista come “riposo del guerriero”, e tutto il resto mera follia), bensì proprio quelle qualità di mitezza, compassione, amore, tolleranza, che alla donna sono da sempre associate e che frenano l’esuberanza attiva del maschio. Passo successivo sarà il disprezzo che egli nutrirà per gli Ebrei, soprattutto quelli cristiani, rei di aver destabilizzato l’impero romano che egli ammirava incondizionatamente. Ben presto l’idea di Volontà si trasformerà in quella Volontà di Potenza che tanti lutti spaventosi porterà all’Europa e al mondo: nel 1934, a gratificante esclusione di gran parte dell’universo femminile, Goebbels affermerà che “il movimento nazional-socialista è per sua natura un movimento maschio” (p. 171), come maschio era inequivocabilmente stato l’impero romano, sgretolatosi sotto una massa di ebrei effeminati inermi, che coltivavano pericolosi sentimenti di uguaglianza e compassione.
Concludendo il suo vivace excursus nella nostra civiltà, Figes non può sicuramente trascurare l’influenza esercitata dalle teorie psicoanalitiche di Freud su tutto il nostro secolo. A tutti i precedenti, questi aggiunge un ulteriore fardello a carico delle donne: quello psicologico, tuttora operante attraverso gli psicoanalisti che ancora si richiamano alla sua scuola. Incapace, osserva Figes, di spingere la sua analisi al di fuori della situazione sociale a lui contingente, oltranzista dell’etica e pervaso dalle tradizioni culturali giudaico-cristiane, egli confesserà di aver sempre sofferto l’enigmaticità della donna, la sua irriducibile problematicità. La freudiana “invidia del pene” risolve brillantemente la nevrosi e l’isteria femminile a carico dell’incapacità della donna di accettare, sessualmente e socialmente, la subordinazione al predominio maschile: la sublimazione intellettuale (così destabilizzante per l’universo maschio-centrico), l’omosessualità, la frigidità e, infine, la pazzia, ne sono pertanto l’inevitabile corollario. Va da sé, osserva l’autrice, che queste rivolte passive, pur nella loro violenza sottintesa, privano anche il maschio della pienezza sessuale e della gioia di un felice rapporto emotivo: piaceri che egli sublimerà attraverso un attaccamento fanatico al lavoro e alla proprietà tipici del capitalismo. Il lavaggio del cervello operato per decenni sulle donne in omaggio a queste teorie porterà poi ad una diffusa diffidenza nei confronti dell’impegno intellettuale femminile, visto come antagonista ad una buona riuscita coniugale e destabilizzante per l’ordine costituito.
Il libro termina poi con alcune annotazioni “economiche” dell’autrice riguardo all’opportunità di tenere in vita l’istituto matrimoniale stesso, causa, secondo il suo punto di vista, di impedimenti alla libera circolazione dei sentimenti nonché di estenuanti trattative patrimoniali e di custodia dei figli in caso di scioglimento. Troppo spesso, afferma Figes, il matrimonio è regolato da leggi che nulla hanno a che vedere con l’amore ma molto con una tradizione che vuole la donna inserita nel lavoro soltanto come fase intermedia della sua vita, mentre il suo vero destino sarebbe quello di “realizzarsi” nella famiglia e nella maternità.
Scheda critica di Sandra Scarlatti
studiosa dell’evolversi del pensiero femminile con particolare attenzione alla presenza dei suoi valori in ambito cattolico